Tromsø la Parigi del Nord
È difficile non imbatterti in un giorno di pioggia, quando sei a nord del Circolo Polare Artico. Intendiamoci: la Scandinavia non è la Scozia. A differenza di quanto si creda, non piove di continuo (almeno in estate). In genere, se vai in Lapponia nel mese di agosto, ti conviene piuttosto attrezzarti: in media, il tempo cambierà almeno tre, quattro volte al giorno ma la pioggia – quella battente – non durerà mai più di tanto. Detto ciò, è da mettere in conto che almeno una giornata di pioggia scrosciante finisca col mandarti all’aria tutti i piani. È capitato anche a me l’estate di tre anni fa, a Tromsø, nel Nord della Norvegia.

A differenza di molti centri lapponi – soprattutto svedesi e finlandesi – Tromsø è una bella cittadina che ha avuto la fortuna di poter conservare buona parte della sua storia. Cosa che da queste parti è tutt’altro che scontata. Almeno qui, la maledizione della “terra bruciata” con cui i Nazisti hanno devastato gran parte della Lapponia, non è arrivata. A fine Ottocento, per i viaggiatori che si avventurano da queste parti, Tromsø è “la Parigi del Nord”: oggettivamente non è particolarmente bella e raffinata, ma lo è abbastanza da demolire i tanti cliché di chi – arrivando su al Nord – si aspetta di trovare solo nomadi e renne. All’epoca, infatti, Tromsø è una cittadina vivace, da cui partono balenieri e cacciatori di orsi diretti alle Isole Svalbard ma non solo. È l’epoca delle grandi esplorazioni artiche e nel giro di qualche anno, personaggi di spicco come Roald Amundsen e Umberto Nobile faranno di Tromsø il centro di reclutamento e il trampolino di lancio delle loro spedizioni. Missione: Polo Nord.

A distanza di un secolo, l’epoca d’oro dei grandi viaggi di scoperta è lontana ma il fascino è rimasto. Oggi la città è un gioiellino pacatamente turistico, dalle case coloratissime e con un nutrito numero di musei e centri culturali. Tutto questo, quando arrivo a Tromsø, lo so e me lo aspetto ma in tutta franchezza, la città in sé non mi attrae più di tanto. Se ho scelto di venire qui, l’ho fatto solo perché arrivarci è abbastanza semplice (aereo diretto da Oslo) e perché dalla città parte un certo numero di autobus che mi permetteranno di esplorare senza auto le montagne e le valli solitarie della regione. A costringermi a passare un giorno intero a Tromsø, contrariamente ai miei programmi, è proprio una giornata di pioggia. Che fare? Quando viaggio, evito sempre di pianificare le cose in modo troppo rigido. Anzi, proprio perché amo fare e disfare, di solito evito di fare programmi. Anche in una giornata di pioggia, infatti, so sempre che “qualcosa succederà”. Per il momento, quindi, decido di andare a visitare il Giardino Botanico più a Nord del mondo. Poi, si vedrà.

Pavel
Pare che l’Artic-Alpine Botanic Garden di Tromsø abbia il suo perché. Pare, appunto. Non posso confermarlo perché riesco a fare soltanto una primissima ricognizione. Ci siamo solo io e un signore sulla sessantina, con una maglietta giallo sparato e la bicicletta accanto. Ci incrociamo un paio di volte. Mi sorride, poi lo perdo di vista. Sto giusto iniziando ad orientarmi, quando di colpo si aprono le cateratte del cielo e la pioggia – che fino a quel momento era stata clemente – inizia a scendere a fiumi. Mi rifugio in una casupola col tetto spiovente e l’insegna “Café” che trovo fra gli alberi. Dentro, non c’è nessuno. In realtà, più che di un caffè vero e proprio si tratta di un minuscolo e accogliente self service con tanto di tavolata imbandita.

È allora, mentre mi servo, che la porta si apre e sulla soglia appare il signore con la maglietta gialla. Tempo un minuto e cominciamo a chiacchierare: prima in inglese, dopodiché lui intercetta il mio accento e inizia a parlare in italiano. Mi dice di averlo imparato da suo nonno, che ha vissuto a Catania. Quanto a lui, si chiama Pavel e viene da Praga. Anzi, no: è nato e vissuto a Praga ma, ora come ora, viene semplicemente dal porto di Tromsø dove è ancorata Bagatela. Una barca che, di fatto, negli ultimi anni è diventata la sua seconda casa.
Da Praga alla Terra di Francesco Giuseppe
“Ho vissuto tutta la vita a Praga, la città in cui sono nato.” mi racconta “Fino a qualche anno fa lavoravo per l’ufficio del turismo. Poi sono andato in pensione e ho fatto quello avrei sempre voluto fare. Con alcuni amici, abbiamo preso una barca a vela di 11 m. X 3, io ci ho caricato su la mia bici e abbiamo iniziato a navigare in giro per l’Artico, in particolare, nelle aree del Passaggio a Nord Est.”
Gli chiedo se la bici con cui l’ho visto girare per il parco sia sua. “Sì, mi accompagna un po’ ovunque. Praticamente navighiamo in lungo e in largo portando a bordo con noi registi e ricercatori che viaggiano verso lande desolate, dove è quasi impossibile arrivare con i mezzi canonici. Poi quando approdiamo da qualche parte, io sbarco con la mia bici ed esploro i dintorni. I porti diventano temporaneamente la nostra casa e sono un universo meraviglioso in cui incontri ogni volta persone e storie diverse. Poi ci sono porti e porti… quello di Tromsø è uno dei migliori in cui siamo approdati. Siamo arrivati giusto due giorni fa, da Bergen. E prima ancora, dalla Terra di Francesco Giuseppe. Sai dov’è?” A occhio e croce sì, ma non so altro. Pavel inizia a raccontare.

“Il nome è al singolare, ma di fatto la Terra di Francesco Giuseppe è un arcipelago che conta qualcosa come duecento isole. È nel mare di Barents, circa 900 km più a sud del Polo Nord.” Dal nome, sembra che l’origine sia asburgica ma considerata la posizione, immagino che sia sotto la Russia. Pavel annuisce: “Sì, oggi è sotto l’’oblast di Arcangelo. In realtà però, a dispetto del nome, l’arcipelago non è mai stato sotto gli Austriaci. Di fatto, i primi a metterci piede sono stati i membri di una spedizione austriaca, nel 1873. Visto che però si trattava di una spedizione privata, l’arcipelago non è mai entrato a far parte dei domini austro-ungarici e negli anni ’20 è diventato ufficialmente russo. Mentre navigavamo verso quelle isole, mi sono letto la storia di quella primissima spedizione del ’73: era austriaca, sì, ma proprio come l’Impero a quei tempi, era assolutamente eterogenea per quanto riguarda i suoi partecipanti. Tant’è che fra di loro, i membri della spedizione parlavano in italiano. Al comando, invece (insieme a Carl Weiprecht) c’era un mio connazionale: Julius von Payer, un personaggio interessantissimo! La spedizione per lui ha fatto un po’ da spartiacque e si può capirlo. Lassù, nel gelo del mare di Barents, le cose non filarono affatto lisce. Payer e il suo equipaggio finirono per dover abbandonare la loro nave, la Tegetthoff, in mezzo ai ghiacci. Si fecero 300 miglia in mezzo al nulla, prima di essere soccorsi da un baleniere russo. Una volta tornato, Payer ha accantonato quasi del tutto la sua vita avventurosa: si è sposato, ha iniziato a dipingere e ha aperto una scuola di pittura per donne. Poi certo, qualche viaggio in terre remote se l’è fatto comunque: a cinquant’anni, per esempio, è partito per la Groenlandia. Voleva dipingere dal vivo un fiordo della costa est. E vent’anni dopo, alla soglia della settantina, ha progettato nientemeno che una spedizione per raggiungere in sottomarino il Polo Nord. Payer era davvero un uomo pieno di passione. Come tanti, all’epoca.”
“E come sono quelle isole così in capo al mondo?” gli chiedo incuriosita. Pavel socchiude gli occhi: “Vulcaniche. Scure, desolate. Totalmente sole in mezzo al mare, ma popolate da trichechi, orsi polari, uccelli di tutti i tipi. La Terra di Francesco Giuseppe è stata un punto di sbarco per balenieri ed esploratori nei secoli e qualcosa è rimasto, dei vecchi insediamenti. Pochissimo, in realtà, ma su una delle isole c’è un cimitero con ventiquattro tombe, ventitré delle quali sono vuote. Il vento le spazza di continuo, come una furia. È lì che eravamo diretti. Non siamo riusciti a sbarcare, comunque. La Russia non ci ha concesso l’autorizzazione. Ci abbiamo provato lo stesso perché avevamo un buon motivo, ma con i Russi non si scherza e ci hanno fermati. Peccato. Ci riproveremo. Magari a settembre, magari l’estate prossima. Con noi, quest’anno c’era un regista che voleva sbarcare proprio su quell’isola per un documentario davvero inedito.”
Pavel mi racconta che gli abitanti del cimitero venivano tutti da paesi diversi. Erano – credo di aver capito – i membri di una delle tante spedizioni che si erano spinte fino a quelle latitudini remote. A distanza di anni, i loro paesi di appartenenza erano venuti a prendersi i loro morti e li avevano riportati a casa. Tutti, tranne uno: la ventiquattresima tomba di quel piccolo cimitero sperduto, è ancora abitata da un uomo che veniva dalla Repubblica Ceca. L’unico che – chissà per quale motivo – non è mai stato reclamato dal suo paese. Ora mi spiego la testardaggine del regista di Praga che ha chiesto un passaggio all’equipaggio del Bagatela e ha sfidato i divieti russi. Mi è difficile immaginare qualcosa di più disperatamente solo di una tomba abbandonata su un’isoletta in mezzo all’Artico.

Un fisico ceco alla deriva fra i ghiacci e una cacciatrice di orsi
La pioggia continua a cadere fitta. Ma Pavel ha ancora tante storie da raccontare. Quella di Frantisek Behounek, lo scrittore e fisico ceco – pupillo di Marie Curie – che partecipò alle spedizioni di Amundsen e di Umberto Nobile. Behounek, mi racconta Pavel, fu tra i dieci superstiti del dirigibile Italia che nel 1928 naufragarono su un lastrone di ghiaccio alla deriva e riuscirono – chissà come – a sopravvivere per quasi due mesi nella famosa “Tenda rossa”. “Behounek era anche scrittore e aveva già pubblicato diversi romanzi e racconti sui suoi viaggi artici.” continua Pavel “Il suo libro più famoso, però, è stato quello in cui ha raccontato la spedizione di Umberto Nobile e quei due mesi durissimi di attesa in mezzo al nulla, nella Tenda rossa.”
Fuori, la pioggia inizia a cadere più lenta. È tempo di salutarsi e di riprendere ognuno la propria strada. Pavel sorride e mi stringe la mano: “Comunque, visto che ti piacciono le storie dell’Artico, sei stata al Polar Museum? Lì c’è tutto, sulle spedizioni di Amundsen e di Nobile e in più, se ci vai, troverai una storia che secondo me ti piacerà tantissimo. La protagonista è una donna: non ti dico altro. Vediamo se la trovi.”

Accetto la sfida. D’altra parte, il cielo continua a non promettere niente di buono e l’idea migliore è rintanarsi in un altro posto chiuso. Lascio il piccolo giardino botanico (che di fatto non ho visitato) e mi incammino di nuovo verso il centro di Tromsø. I colori delle case brillano di pioggia. L’aria ha il profumo un po’ lacustre dei fiordi e un odore scuro di terra. Ci metto un po’, a raggiungere la sagoma rosso ruggine del Polar Museum. Quando entro, proprio come mi aveva promesso Pavel, trovo ogni ben di Dio, in fatto di storie. D’altra parte, è vero: da qui, di spedizioni, ne sono partite davvero tante. Mentre osservo una carrellata di vecchie foto, un’immagine calamita la mia attenzione. È la foto, sfocatissima, di una donna col fucile in mano, in piedi accanto alla carcassa di un orso. È Wanny Woldstad. Sicuramente è a lei, che si riferiva Pavel. Rimasta vedova per la prima volta, Wanny non ci pensò su due volte a investire i pochi soldi che aveva in una Ford T e a trasformarla in un taxi. Fu la prima donna taxista di Tromsø, cosa che all’epoca, immagino, fece piuttosto scalpore. Ma la sua storia non finisce qui. Vedova del secondo marito – e con due figli adolescenti – Wanny si innamorò infatti di un cacciatore di orsi e lo seguì davvero “in capo al mondo”, su alle isole Svalbard. Non come moglie, però, né come angelo del focolare ma come compagna a tutti gli effetti. Con il suo Anders, Wanny imparò a cacciare gli orsi e rimase alle Svalbard per cinque stagioni di seguito.
Quella di Wanny Woldstad, è una storia che sembra un romanzo e che proprio per questo, forse, merita di essere raccontata in un capitolo a parte. È l’ultimo regalo che mi ha lasciato quello strano giorno di pioggia così denso di volti.
