Cronache artiche: 20 anni di vita a bordo della famiglia Schwoerer per registrare il cambiamento climatico

Dalla Conferenza sul Clima di Parigi a un molo del porto di Akureyri

Durante la pandemia e il confinamento, mi è capitato spesso di ripensare alla famiglia Schwoerer e alla scelta di vita, per certi aspetti estrema, che porta avanti da più di vent’anni con il progetto Top to Top Global Climate Expedition. Vivere su una barca può essere un colpo di testa passeggero, dal piacevole retrogusto hippie. Ma vivere su una barca per vent’anni, solcando i mari del mondo per documentare il cambiamento climatico e cercare soluzioni, è qualcosa di ben diverso: una scelta di campo. È una fortuna che abbia conosciuto Dario Schwoerer, quattro anni fa. Ed è una fortuna che sia successo così come è capitato. Cioè sulla scia di una coincidenza che ha dell’assurdo.

© Top to Top Climate Expedition

Il primo incontro “da remoto” che ho avuto con Dario Schwoerer è stato a Parigi, nel dicembre 2015 durante un meeting di giornalismo costruttivo collaterale alla Conferenza sul Clima.

Già allora, tra i tanti progetti in corso presentati, mi aveva colpita soprattutto la storia di un climatologo svizzero che da anni viaggia per i mari del mondo per documentare l’impatto del riscaldamento globale, raccogliere input e soluzioni e condividerle nelle scuole per innescare nelle giovani generazioni la voglia (e l’urgenza) di cambiare. Quel climatologo é Dario Schowerer ma probabilmente mi sarei dimenticata di lui se, due anni dopo, non lo avessi casualmente incontrato – questa volta dal vivo – durante uno dei miei viaggi.

Precisamente su un molo del porto di Akureyri, nel nord dell’Islanda. Mi era bastata un’occhiata per riconoscerlo: un uomo alto, asciutto, con i capelli grigi e grandi occhi azzurri. Così, a un primo colpo d’occhio, Dario Schwoerer non rientra nell’immaginario comune, tradizionalmente cupo e schivo, del lupo di mare. E in effetti, lui e la moglie, Sabine, sono gente di montagna che – a dispetto della scelta di vita – hanno mantenuto con le montagne un saldo cordone ombelicale. Non è un caso, forse, che abbiano chiamato la loro barca Pachamama, ovvero Madre Terra. In realtà, i veri lupi di mare, nati ognuno in un continente diverso e cresciuti a bordo, sono i figli: cinque, ma Sabine – ai tempi del nostro incontro in Islanda – stava per dare alla luce il sesto elemento della ciurma.

Schwoerer familly / © Top to Top Climate Expedition
Quattro chiacchiere a bordo della Pachamama

In quello strano, assolato pomeriggio di agosto, Dario mi racconta i preliminari della scelta che li ha condotti qui. Di base, oltre che climatologo, è anche guida alpina ed è in questi panni che ha avuto il primo faccia a faccia con gli effetti del cambiamento climatico: “Quando ho visto che i ghiacci della montagna che amavo di più – il pizzo Bernina – si stavano sciogliendo, ho sentito nel profondo che dovevo fare qualcosa. Ho iniziato con l’organizzare un brainstorming, con una ventina di persone da cui è nato un primissimo progetto: l’idea, era viaggiare a piedi o con soluzioni a basso impatto energetico sulle montagne dei ventisei cantoni svizzeri, per raccogliere testimonianze del cambiamento climatico ma soprattutto esempi di buone pratiche e di soluzioni nate dal basso a cui dare voce e diffusione. Abbiamo viaggiato per monti e per valli ed era davvero straordinario poi, diffondere tutto questo nelle scuole e vedere i bambini toccati da quanto di bello ma anche di nuovo (sul piano tecnologico) esiste in Svizzera. Poi, arrivati a Ginevra, io e Sabine abbiamo deciso di non fermarci. La Svizzera non è un caso a sé: non siamo isolati dal resto del mondo. È così che abbiamo deciso di ampliare le frontiere del nostro progetto, cercando di raggiungere le cime di ogni continente per studiare gli effetti del riscaldamento globale. Il clima, infatti, cambia non solo in altitudine ma anche in latitudine e una volta raggiunte le cime di ogni continente, avremmo coperto ogni fascia. L’idea era fare tutto con le nostre forze, come in Svizzera, ma tra i continenti ci sono gli oceani e anche con tutta la buona volontà, a nuoto non avremmo potuto attraversarli. Così abbiamo costruito Pachamama, la nostra barca a vela a basso impatto energetico. Ci muoviamo grazie al vento, cercando di rimanere il più possibile vicino alle catene montuose, dopodiché – quando sbarchiamo – ci arrampichiamo sulle montagne e usiamo le biciclette per raggiungere le realtà con cui ci interessa interagire. Principalmente le scuole. Perché la chiave di volta del cambiamento, sono loro: i giovani.”

© Florian Ledoux

Dario mi racconta come la famiglia abbia iniziato ad allargarsi, mi parla del passaggio a Nord Ovest e della crisi del popolo Inuit, di incontri e di naufragi come quello che – nel 2004 – dopo lo scontro con un container alla deriva, nel Sud del Pacifico, li ha tenuti a terra. Giusto il tempo di raggranellare le risorse necessarie per riparare la barca e salpare di nuovo. Come dicevo, vent’anni di vita in barca non hanno nulla di bohémien: le scelte di vita più estreme implicano sempre un rigoroso distillato di rinunce e di concretezza. Divisione dei compiti, ottimizzazione delle risorse. Una quotidianità che ha una sua bellezza scarna ed essenziale, con un equilibrio che scorre ogni giorno sul filo del rasoio. La famiglia Schwoerer collabora con le università di tutto il mondo a cui fornisce campioni di eDna (environmental DNA), traghetta ricercatori e scienziati, ospita insegnanti che fanno home schooling ai figli e organizza corsi e interventi per le scuole. Niente colpi di testa, nessuna improvvisazione: il ritmo è piuttosto quello rigoroso e inarrestabile di un orologio svizzero.

© Florian Ledoux

Quattro anni dopo

A febbraio, Dario e Sabine mi hanno scritto per diffondere la campagna “Save the Artic” (https://donorbox.org/save-the-arctic ). E io, che avevo già intenzione di ricontattarli, ne ho approfittato per intervistarli. Questa volta io sono a Parigi, Dario è al largo di Tromsø, nel nord della Norvegia. Mi racconta che proprio quel giorno hanno salutato il ritorno del sole dopo tre mesi e passa di oscurità. Poi mi aggiorna sugli sviluppi degli ultimi anni: il loro sesto figlio è venuto alla luce subito dopo il nostro incontro. E a distanza di poco, la Pachamama ha affrontato anche il suo ultimo, più rovinoso naufragio: “È stato terribile, l’acqua entrava da tutte le parti e meno male che per svuotare la barca c’erano i nostri figli. Abbiamo aspettato i soccorsi per due ore prima che riuscissero a raggiungerci, quando la barca era ormai semi distrutta. L’assicurazione ci ha garantito che era possibile riparare la Pachamama nel giro di due settimane. In realtà sono passati nove mesi. Abbiamo cambiato casa dieci volte, dormendo anche in una lavanderia o alloggiando in un’abitazione sfitta da 35 anni. E conta che eravamo in nove: noi e l’insegnante dei nostri figli! No, non è stato facile ma gli abitanti di Akureyri ci hanno aiutati tantissimo. Alla fine, abbiamo riparato la barca con le nostre forze. L’abbiamo rafforzata con dei parabordi e siamo ripartiti.”

© Florian Ledoux

Da diversi anni, ormai, i viaggi della spedizione si concentrano nell’Artico. Chiedo a Dario quanto sia cambiato il clima all’estremo Nord del pianeta: “L’anno scorso siamo stati gli unici a solcare i mari a nord delle isole Svalbard e abbiamo raccolto enormi quantità di plastica. Tra gli 81 e gli 82 gradi Nord, non c’era praticamente ghiaccio. Al Polo la situazione è da 5 a 10 volte più grave che nelle zone temperate in termini di inquinamento, plastica e riscaldamento climatico. La pandemia non nasce dal nulla: è un sintomo che dimostra quanto la Terra sia sotto stress. Il Polo è un collettore che amplifica i problemi dell’intero pianeta. Queste zone sono un po’ come la placenta del mondo. Se la placenta, si ammala, allora non c’è scampo per nessuno.”

© Top to Top
La soluzione al cambiamento climatico passa attraverso la parola “connessione”

Dalle origini del progetto, Dario e la sua famiglia hanno puntato a mettere a fuoco i problemi nell’ottica di trovare (e diffondere) soluzioni. Gli chiedo come sia cambiata la loro prospettiva nel corso degli anni. “Ormai sono 21 anni che viviamo a stretto contatto con la natura. Abbiamo sviluppato una connessione forte, a fior di pelle con l’ambiente che ci circonda, quindi capiamo se la natura sta male. Lo sentiamo. Non siamo Greenpeace, non abbiamo quel tipo di forza, ma nel nostro piccolo cerchiamo di ispirare i ragazzi a prendersi a cuore le sorti del pianeta. Sul piano dell’impatto concreto, con i nostri viaggi non portiamo solo contributi a parole ma anche campioni di microplastiche e di eDna. Abbiamo navigato 5 volte intorno al pianeta: di campioni ne abbiamo raccolti parecchi. E parecchi ne troveremo ancora. È un po’ come se il nostro lavoro fosse il supplizio di Sisifo: continuiamo a raccogliere plastica ma continuiamo anche a trovarne. Ridurre i consumi e renderli consapevoli è un passo ma questo non basta. L’industria del packaging a volte rende impossibile evitare di comprare plastica. Da qui è nata l’idea di lanciare la campagna LPS: Leave Plastic in the Shop con cui invitiamo chi fa acquisti a lasciare gli imballaggi di plastica nei negozi, per creare disagio e spingere i negozianti a fare pressione sui produttori. Per quanto riguarda, invece, il lavoro con gli studenti, la nostra prospettiva è sensibilmente cambiata. Prima cercavamo di generare consapevolezza, poi abbiamo puntato a condividere le soluzioni, cioè le buone pratiche sviluppate in risposta al cambiamento climatico. Oggi cerchiamo di insegnare ai ragazzi come adattarsi in modo costruttivo e proattivo a una trasformazione che ormai è una realtà di fatto.

© Florian Ledoux

Ci sono luoghi in cui adattarsi è già oggi questione di vita o di morte. Prendi la Groenlandia, ad esempio. Fra gli Inuit il tasso dei suicidi è uno dei più alti al mondo soprattutto tra i ragazzi e su questo il cambiamento climatico gioca un ruolo di primo piano dal punto di vista concreto e identitario. Con lo scioglimento dei ghiacci e la riduzione delle foche, gli Inuit non possono più cacciare. C’è chi per disperazione mangia i cani da slitta e chi cerca di trovare un barlume di adrenalina nell’alcool. Senza foche non vivono. Pensa che nella loro traduzione del Vangelo non c’è ‘dacci il nostro pane quotidiano’ ma ‘dacci le nostre foche quotidiane’. Quello degli Inuit groenlandesi è uno degli esempi possibili ma non è il solo. È anche a questi contesti che ci rivolgiamo ed è in questo senso che stiamo cercando si sviluppare il concetto di connessione. Che nella nostra ottica, ben si lega agli sport all’aria aperta. Parlo per esperienza diretta. Per scelta e per necessità, noi siamo molto sportivi. Per questo, credo che la miglior medicina – soprattutto per chi fa una vita molto diversa dalla nostra – sia fare sport all’aperto. Sentire le onde sul viso e il vento sulla pelle, sciare, significa riallacciare il filo d’oro che ci lega all’ambiente. Questa connessione deve essere vissuta, non può essere sostituita guardando le stesse cose in TV, da spettatori.

© Florian Ledoux

I nostri figli sono tutti nati a stretto contatto con la natura e in casa, cioè in barca, ci stanno solo per dormire. Per il resto vivono all’aperto. Già da come vedono volare gli uccelli, sanno se sta per scoppiare una tempesta. Eppure, non sono delle eccezioni: è il contatto con la natura che li ha resi così. Mio figlio Noe, a 7 anni, è stato il primo ragazzo sotto i 16 anni a scalare il monte più alto dell’Islanda. Ultimamente sta raccogliendo risorse per fondare lo yacht club più a nord del mondo, nel nord della Norvegia. Ha iniziato col chiedere a un’organizzazione inglese se poteva regalargli una delle loro barche dismesse. Gli hanno risposto: te ne diamo due se scrivi qualche articolo per noi. Ora siamo a 6 barche: un primo passo per promuovere lo sport outdoor per bambini in queste aree del pianeta. Questa prospettiva può essere diffusa. Tra i nostri prossimi progetti di viaggio – oltre alla prosecuzione delle ricerche sulle microplastiche all’ isola di Jan Mayen, dove abbiamo iniziato un confronto fra le plastiche trovate su quelle spiagge nei primi anni Cinquanta dai ricercatori – c’è anche il proposito di tornare presso le comunità Inuit. Vorremmo aiutarli a mettere a fuoco progetti orientati a sviluppare gli sport all’aria aperta: per loro sono fondamentali e potrebbero anche trasformarsi in attrazione turistica oltre che aprire uno spiraglio sul futuro. Perché tutto parte dalla connessione: le persone che hanno una buona connessione con il pianeta, finiscono sempre per prendere la decisione giusta.”

Dario Schwoerer, Islanda 2017 / © Martina Fragale
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4 pensieri su “Cronache artiche: 20 anni di vita a bordo della famiglia Schwoerer per registrare il cambiamento climatico

  1. Martina Fragale dice:

    leggo solo ora il tuo commento… grazie! Sì, anche per me quello con Dario e la sua famiglia è stato davvero un incontro fortunato. Fanno un lavoro enorme, non solo a livello di ricerca ma anche in ambito divulgativo. Spero davvero di incontrarli di nuovo dal vivo, in qualche parte del mondo

  2. Marco Kappenberger dice:

    Grazie Martina, per il buon articolo ! Dopotutto il mondo e’ un solo paese e tutta l’umanita’ ne sono i cittadini ! Quanto fa Dario e la sua famigli per il medio ambiente dell’umanita’ intera e veramente esemplare: li conoscemmo quando passarono alle Samoa anni fa’, qui dove il Covid anora non arrivo’ ! Felici giorni Pasquali a tutt !

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