Il privilegio dell’elleboro

Il solitario risveglio invernale dell’elleboro

Notte apparente. È solo la penombra del bosco. Un fiore dall’aspetto semplice e discreto sembra infondere luce nella semioscurità: è l’Elleboro, nome elegante la cui etimologia rivela un carattere velenoso e inappetibile. Dal greco antico helo “elimino”, e bora “cibo”, che sta a significare “non cibarsene” perché velenoso. Alcuni vegetali come questa pianta, la cicuta o l’edera non producono composti tossici per proteggere se stessi o tenere gli erbivori a distanza. Ma la presenza di sostanze velenose impedisce o quantomeno ostacola la loro assunzione, favorendone la sopravvivenza: la selezione naturale ha operato premiando queste piante per la maggior capacità di sopravvivenza e quindi di riproduzione.

Ellebori / © Chiara Baù

Sotto i rami nudi degli alberi, gli Ellebori conferiscono colore a fine inverno e a inizio primavera, quando la gran parte delle piante è in stato dormiente. Specie bassa sempreverde, con foglie coriacee scure, spesso dentate verso l’apice. I fiori piatti, bianco puro, qualche volta con toni rosati. Preferisce luoghi semi-ombreggiati su terreni profondi, umiferi, ben drenati, ma non asciutti o calcarei.

Mi trovo a circa un’ora di macchina da Como, nel comune di Griante, un piccolo paese appartenente alla comunità montana del Lario Intelvese, noto fra l’altro per essere stato a suo tempo citato nel famoso saggio “La Certosa di Parma” di Stendhal.

Un balcone roccioso, brullo e dai colori spenti per il fogliame secco dell’inverno si sporge sul lago, sovrastando l’abitato e alcune ville storiche. Incastrata nella roccia, una chiesetta a ridosso del Sasso di San Martino si affaccia sul pendio, a guardia del lago sottostante. Il sentiero per raggiungerla, costellato di edicole con immagini a mosaico, è una comoda mulattiera che si inerpica tra prati cosparsi di Ellebori: con il loro colore smagliante sembrano indicare la direzione verso la chiesa, un po’ come i sassolini bianchi nella favola di Hansel e Gretel.

Nota come chiesetta di San Martino, esistente già alla fine del XVI secolo, fu trasformata in santuario della Madonna delle Grazie in San Martino; il motivo secondo la leggenda sarebbe legato al ritrovamento di una statua lignea quattrocentesca della Madonna col Bambino proprio in una grotta del monte dove era stata messa in salvo cent’anni prima da un abitante quando il paese fu devastato dal popolo di Grigioni. Trasportata dai fedeli nella chiesa parrocchiale di Griante, la statua sparì miracolosamente e fu ritrovata da una fanciulla sul Sasso di San Martino, cosa che fu interpretata come il desidero di Maria di essere venerata in questo luogo.

Chiesetta di San Martino, sullo sfondo il lago di Como / © Chiara Baù

La varietà più comune è la specie Helleborus niger, così chiamato per le radici nere, ma con una corolla che spazia dal bianco al rosa vinaccio; appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee, che deve il nome al genere più ricco di specie, il ranunculus, appellativo a sua volta derivante da rana, data la presenza di parecchi esemplari presso o dentro l’acqua come il gracidante anfibio.

L’Elleboro è una pianta geofita rizomatosa, cioè dotata di rizoma, un fusto modificato, sotterraneo dal quale ogni anno si dipartono radici e fusti aerei. Tali organi, protetti dalle intemperie e dall’attacco degli erbivori, grazie all’ubicazione sottoterra, garantiscono la sopravvivenza allo stress causato dal freddo e dalla siccità. Nelle piante perenni come gli Ellebori, gli organi sotterranei possono trascorrere lunghi periodi di dormienza durante i quali il metabolismo è molto rallentato per consentire un consumo di energia ridotto.

Proprio nel rizoma risiede la resilienza di questa pianta capace di fiorire in pieno inverno fino a inizio primavera

La sua struttura ha infatti la funzione di organo di riserva, disposto orizzontalmente nel terreno, con simmetria dorsoventrale. Una funzione simile a quella svolta dallo strato adiposo nel corpo dell’orso che durante l’estate trae energia dal grasso accumulato in inverno; analogamente l’Elleboro trae le proprie sostanze di riserva dal rizoma.

Ellebori nel bosco / © Chiara Baù

Osservare un fiore non è come osservare un animale. Una modalità e un approccio del tutto diversi, ma altrettanto stimolanti. Ad esempio nelle immense distese dell’Alaska da me frequentate tempo fa e popolate da numerosi orsi grizzly, occorreva procedere nella foresta lentamente e con circospezione, tenendo ben presente che gli orsi non tollerano sorprese. Nell’osservare la fauna selvatica è indispensabile la massima attenzione per non spaventare o sorprendere gli animali. Importante è valutare la direzione del vento e, nel caso di incontro con l’orso, parlare a voce alta preannunciando di continuo la propria presenza; capita così di scorgere all’improvviso la testa di un grizzly appostato nell’erba alta per controllare le intenzioni dell’uomo, ma pronto a riprendere le proprie faccende, una volta accertato che l’uomo non costituisce una minaccia.

Nei boschi di Griante, al contrario, i ruoli sono inversi. È il fiore a sorprendere chi lo trova, senza pretendere alcun tipo di comportamento se non il rispetto. Ci si può esprimere come si vuole, modulando il tono della voce a proprio piacimento, anche se l’istinto mi induce sempre a parlare sottovoce, perfino in presenza dei fiori, come se un tono squillante della voce potesse disturbare l’ambiente circostante alla stessa stregua dell’inquinamento.

Ad un primo sguardo l’Elleboro sembra indifeso contro il gelo invernale, il che fa sorgere un’infinità di domande. L’immobilità delle piante in realtà nasconde meccanismi meravigliosi.

In quanto pianta perenne, l’Elleboro ha il privilegio di comparire solo in un determinato periodo per poi rendersi invisibile durante tutto il resto dell’anno quando solo le foglie sono presenti, necessarie per la fotosintesi, per rifornire di elementi di riserva il rizoma e consentirgli di fiorire in pieno inverno. Il suo privilegio è anche quello di assistere al passaggio da inverno a primavera, godendo dei primi raggi di sole che con il loro tepore annunciano la nuova stagione.

Luce degli ellebori nella penombra del bosco / © Chiara Baù

La sua fioritura è determinata dal fotoperiodo, ed ecco come il rapporto tra la durata del giorno e quella della notte ha un’influenza ecologica: una pianta brevidiurna in grado di fiorire solo quando la luce del giorno permane meno di 12 ore. Appare solitario senza alcun’altra specie vicino, come se volesse distinguersi a tutti i costi con i suoi colori smaglianti, arrogandosi il diritto di occupare per un intervallo temporale la sua porzione di bosco, godendosi appieno la solitudine. Così mentre cammino in salita lungo il pendio lo osservo con curiosità, ammirandolo per il vanto della sua condizione di assoluta solitudine. Spicca nella sua semplicità, ma nello stesso tempo rivela una forma alquanto complessa.

A differenza di altre piante, le infiorescenze di Elleboro sono molto speciali

Il fiore non è formato da petali, ma da sepali, cioè da appariscenti foglie modificate e dall’aspetto grazioso, foglie che normalmente consentirebbero di proteggere il fiore. Nel corso dell’evoluzione i petali che in generale derivavano da foglie metamorfosate, nell’Elleboro in particolare si sono trasformati in nettari cioè in ghiandole nettarifere. Si parla cosi di ipermetamorfosi. Il nettario è una piccola formazione, un organo corto e di forma tubolare che si ritrova alla base degli stami, dove viene secreto il nettare; in questo caso si chiama nettare nuziario in quanto favorisce l’impollinazione. Proprio nel caso dell’Elleboro si ha un anello di nèttari al centro del fiore che ha lo scopo di attrarre i pochi insetti attivi nel periodo dell’anno più freddo che coincide con la fioritura. La natura privilegia, in un periodo ostile, la formazione di più nettare possibile in modo da garantire l’impollinazione.

In altre piante invece il nettario si trova alla base delle foglie; in questo caso si chiama extranuziale ed è ricercato da particolari formiche che in cambio del nettare svolgono un’azione di difesa da eventuali parassiti. Per facilitare il più possibile l’impollinazione i fiori dell’Elleboro grazie ad una struttura quanto mai semplice, possono essere impollinati da insetti diversi. I sepali rimangono sull’infruttescenza fino alla maturazione dei semi. A impollinazione avvenuta, i fiori avvizziscono e cadono. Nel processo di evoluzione, contrariamente all’Elleboro che rivela una semplice struttura del fiore, è interessante osservare come alcuni fiori adattino la propria forma a quella del corpo dell’insetto impollinatore, come quelli della salvia, accessibili solo alle api. Infatti il fiore della salvia, sezionato longitudinalmente, mostra una parte superiore a forma di conca ed una inferiore simile ad uno sperone che contiene il nettare. Gli stami sono disposti a bilanciere, cosi quando l’ape si intrufola nel fiore, fa abbassare l’antera che in tal modo ricopre il suo corpo di polline.

D’altronde anche nel mondo animale esistono esempi infiniti di continue trasformazioni. Basti pensare alle ali degli uccelli che altro non sono che braccia specializzate derivate dagli arti dei rettili. Quando poi le ali non espletano appieno la loro attività originaria ecco che regrediscono per trovare la funzione migliore, come nel caso dei pinguini. Nel corso dell’evoluzione naturale i pinguini hanno modificato il corpo in relazione all’ambiente circostante, ma soprattutto alle attività ad esso correlate, sviluppando maggiori abilità nel nuoto a discapito della capacità di volare. Tutto in natura si trasforma e ogni minimo dettaglio si adatta in modo ottimale alle condizioni ambientali cui deve sottostare. Nulla viene sprecato.

 Caprioli / © Chiara Baù

Un esempio mi viene dato dai caprioli che scorgo in lontananza, in una radura. Con i denti stanno facendo di tutto per strapparsi il pelo, è il momento della muta, ed assumono un aspetto davvero singolare: la vistosa perdita di pelo, che mette in mostra chiazze rasate e ciocche penzolanti, potrebbe far pensare ad uno stato di debilitazione o cattiva salute. Altro non è che una normale fase nella biologia dell’animale, chiamata muta primaverile. A partire dalle zampe, dalla testa e dal collo, la pelliccia invernale di color grigio-bruno scompare lasciando il posto al mantello estivo, più acceso e di colore rosso-arancio.

Mentre li osservo, noto con sorpresa il volo di alcune cince, minuscoli uccellini, che atterrano veloci sul terreno e con il becco afferrano i ciuffi di pelo residui dei caprioli che riutilizzeranno per costruirsi un morbido nido nell’albero più vicino, prima che il vento spazzi via gli ultimi resti di peluria. Ecco così che il pelo del capriolo, utile isolante contro il rigore dell’inverno, diventa per le cince il materiale essenziale per foderare il nuovo nido primaverile.

Le acque del lago sottostante, increspate da intense folate di vento sono scalfite da piccole onde spumeggianti. Gli Ellebori potranno assistere ancora per qualche giorno a questo spettacolo. Poi, a breve i fiori cominceranno ad appassire seguendo il loro ciclo naturale. È tempo di lasciare che nuovi fiori e colori esaltino il pendio brullo della chiesetta di San Martino per rallegrare la fine della primavera e la prossima stagione estiva.

L’Elleboro prende anche il nome di Rosa di Natale; alcune specie sono coltivate come ornamentali, colorando i giardini e i balconi delle città. Sono state infatti selezionate diverse specie, differenti per portamento e tipo di fiore, ma la specie più bella è la più semplice, quella autentica che nasce spontanea nei boschi, dal carattere indomabile con naturali sfumature che nessun incrocio artificiale riuscirà mai a riprodurre. Con nessuna manipolazione genetica.

Orgoglioso della sua forza e della sua bellezza, l’Elleboro ricorda ancora una volta quanto la natura riesca a meravigliare e sorprendere.

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3 pensieri su “Il privilegio dell’elleboro

  1. Claudio dice:

    La poesia della natura espressa così bene da Chiara dovrebbe far parte del processo di formazione di ogni essere umano. Per far comprendere, sensibilizzare i giovani riguardo il patrimonio che ci è stato affidato e che noi stiamo compromettendo con una leggerezza e un’incoscienza senza giustificazioni. Dovrebbe essere materia d’insegnamento non nozionistica per non rendere tutto troppo meccanico come succede troppo spesso nella scuola, evitando di spoetizzare la gioventù. Anche la tecnologia “internettiana” dovrebbe aiutare toccando argomenti di questa portata, visto che il drive sono, purtroppo, gli smartphone, vere appendici di tutti ormai. Ma non essendo contenuti commerciali e consumistici ciò non avviene. Non essendo argomenti da prima pagina violenti o da scoop giornalistico sono ignorati completamente o solo rienuti degni di trafiletti confusi nel magma delle notizie da riempimento. Chiara, e le persone come lei, dovrebbero avere una cattedra, ben altra rilevanza per poter influire maggiormente sulla mentalità di tutti noi.

  2. Liz dice:

    Come sempre emozionante leggerti e guardare la meraviglia della flora e della fauna attraverso i tuoi occhi. Mi domando che orari scegli per poter incontrare le creature dei boschi… spero in un tuo pezzo futuro sul tema. Fai veramente venir voglia di scoprire il mondo naturale!

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