Deep-sea mining: dal mare liberum all’azione di Greenpeace

La conquista dei fondali oceanici, come per i cieli e lo spazio, è un sogno umano antico. Ma la manomissione di ambienti marini remoti, con il deep-sea mining, sembra dribblare i paletti etici e legali, e ci impone allarmanti interrogativi sul futuro della nostra specie sul pianeta.

Nel 1870 la Royal Society, su insistenza di Charles Wyville Thomson, professore di storia naturale all’Università di Edimburgo, convinse il governo britannico a fornire una delle navi di Sua Maestà per un viaggio di esplorazione attraverso gli oceani del pianeta. Il 7 dicembre 1872, la spedizione prese il mare a bordo della corvetta HMS Challenger. Si trattava di un tre alberi in legno a vele quadre munito di un potente motore a vapore. Per far spazio ai laboratori, ai termometri, e a 291 chilometri di cavi in canapa italiana, il Challenger era stato disarmato di tutti i cannoni tranne due. Quando tornò, nel 1876, aveva attraversato tutti gli oceani, coperto 70.000 miglia nautiche e raccolto innumerevoli campioni dal fondo del mare. Tra questi c’erano degli strani noduli metallici. Provenivano da una zona denominata Clarion-Clipperton, un’immensa area del fondale oceanico tra le Hawaii e l’isola di Clipperton (o meglio, Île de la Passion, visto che è territorio francese) un atollo situato a 580 miglia al largo delle coste del Messico. Ne avevano già trovati, di quegli strani oggetti, nel Mare di Kara, quella porzione di Artico davanti alla Siberia. Erano evidentemente molto diffusi, ma ci vollero ottant’anni prima che che questi noduli interessassero a qualcuno.

Abissi sempre più vicini

Il 23 gennaio del 1960 il batiscafo Tieste, progettato in Svizzera, costruito in Italia, ma di proprietà della US Navy, raggiungeva la massima profondità del pianeta nella Fossa delle Marianne. L’impresa convinse alcuni industriali americani ad investire in un progetto sul quale insisteva da almeno tre anni un certo John L. Mero, professore a Berkeley presso l’Istituto di Risorse Marine, dipartimento di Tecnologia Mineraria. Quei noduli erano ricchissimi di metalli interessanti e possedevano uno stato di purezza misteriosamente elevato. Valeva la pena mettere dei soldi per sviluppare una tecnologia che, ormai era chiaro, c’era e funzionava. Nel frattempo lungo le coste occidentali del Sudafrica, a profondità meno proibitive, la de Beers estraeva diamanti dal fondo del mare con le sorbone. Il mare non era più soltanto una riserva di cibo, era anche una miniera. La più grande del pianeta.

Olive, uova e patate di metallo

Così vengono descritti anche dagli scienziati i famosi noduli polimetallici, secondo la loro grandezza che varia dai 2 ai 20 cm. Le pepite contengono, in ordine di peso percentuale: manganese, nichel, rame, cobalto, ferro, silicio, alluminio, calcio, sodio, magnesio, potassio, titanio e bario. La loro genesi è ben lontana dall’essere definita dalla scienza.

Le prese d’aria idrotermiche sono ricche fonti di vita, rame e altri metalli preziosi | © Schmidt Ocean Institute

Potrebbe trattarsi di sedimenti conglomerati, oppure il frutto di attività vulcaniche o idrotermali, quanto di una incessante azione di batteri abissali. A monte potrebbe esserci un lungo processo, un lavoro della natura spalmato sui milioni di anni, forse centinaia. Ma al mezzo miliardo di dollari versato per la ricerca questo interessava poco: al mezzo miliardo interessava come arrivare a prendere i maledetti noduli in fondo al mare. Negli anni settanta dalla zona Clarion-Clipperton (a 5.500 metri di profondità) vennero prelevate centinaia di tonnellate di materiale, ma un improvviso surplus di nichel, il minerale target delle estrazioni, invertì la rotta del denaro.

Nei venti anni successivi erano cambiate molte cose: la tecnologia, anche grazie all’informatica, aveva reso più accessibili lo spazio e gli abissi e la forte domanda di tutti i metalli aveva riportato in auge progetti che venti anni prima erano stati abbandonati. Ma erano anche stati esaminati alcuni aspetti etici e legali sullo sfruttamento del mare.

Fondali marini patrimonio dell’umanità

In passato il diritto territoriale sulle acque si rifaceva ad un concetto comunemente accettato, espresso in un’opera del giurista olandese Cornelis van Binkershoek, pubblicata nel 1761, vent’anni dopo la sua morte. Il concetto era molto semplice: i diritti territoriali potevano esercitarsi fino alla gittata di un cannone, che all’epoca era di circa tre miglia nautiche. Con l’aumentare della potenza dei cannoni le miglia da tre divennero sei, poi dodici. Tutto il resto del mare restava libero, totalmente libero, come auspicato da un altro illustre Olandese, Ugo Grozio, nel suo trattato Mare Liberum, pubblicato nel 1609, suscitando le critiche di Genova e Portogallo.

Ma nel 1967 Arvid Pardo, un personaggio la cui vita sembra un romanzo, nella veste di Ambasciatore di Malta presso l’ONU con un memorabile intervento ribaltò definitivamente il concetto. Le Nazioni Unite iniziarono a considerare il ‘Mare Libero’ ed i suoi fondali come patrimonio comune, e quindi soggetto a tutele. Fu proprio l’attività estrattiva in profondità ad accelerare il cambiamento. Nel 1970, la risoluzione 2749 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sancì che i fondali oceanici profondi erano “patrimonio comune dell’umanità”. La risoluzione, cui aderirono 108 nazioni, stabiliva che i fondali oceanici non potevano appartenere né agli stati né ai privati e che dovevano essere preservati nell’interesse delle generazioni future.

Nel 1982 la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o UNCLOS, stabilì che le risorse dei fondali marini erano patrimonio comune e che il loro sfruttamento poteva essere concesso solo da un’assemblea delle parti. Gli USA si tirano fuori. Poi, nel 1994, su proposta delle Nazioni Unite viene fondato l’International Seabed Authority (Autorità internazionale dei fondali marini), un ente intergovernativo che ha lo scopo di coordinare e controllare le attività umane sui fondali oceanici. Ora l’ente ha qualità di osservatore presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Estrazione mineraria in alto mare | © GRID-Arendal | www.grida.no/resources/8156
Un impatto potenzialmente irreversibile

Fino a tre anni fa sapevo poco o nulla del deep sea mining. Finché ad una conferenza un docente del politecnico di Zurigo, invitato per parlare delle fumarole abissali, conclude con una slide che ritrae macchinari cingolati su un fondale oceanico e una considerazione personale, ma in tema: “Non sappiamo ancora molto delle dinamiche di quel mondo laggiù, ma già ci sono enormi investimenti per sfruttarlo. Il deep-sea mining, viste le scarse conoscenze che abbiamo, può essere fatale per quell’ambiente”. Era un chiaro messaggio d’allarme, lanciato da chi si occupa quotidianamente della questione. L’incidente della DeepwaterHorizon era ancora vivo, e ci aveva fatto riflettere su una questione non da poco: quando si tratta di valutazioni sull’impatto ambientale e di gestione del rischio, a quelle profondità tutti noi, governi compresi, siamo totalmente nelle mani delle compagnie petrolifere.

Scartabellando tra le varie pubblicazioni scientifiche, tra Nature, Elzevier ed altri, salta immediatamente all’occhio che la maggior parte degli studi sull’argomento pubblicati prima del 2019 sono valutazioni di carattere tecnico ed economico. Uno di questi afferma che con i minerali custoditi dai fondali oceanici si potrebbero costruire batterie per 140 milioni di autovetture elettriche, contribuendo all’abbattimento della CO₂. Inoltre l’estrazione dal fondo del mare avrebbe un impatto, sull’ambiente e sull’atmosfera terrestri, assai minore di quello di una miniera a terra. Poco o nulla sull’impatto ambientale marino.

In verità sappiamo ancora poco degli ecosistemi che abitano le profondità abissali. Ma fu proprio lo studio delle fumarole a stravolgere molti assunti sulla vita sul pianeta. Si era scoperto che alcuni batteri potevano sopravvivere senza ossigeno, senza luce, in presenza di sostanze tossiche e a temperature impossibili per ogni altra forma di vita. Quello degli abissi è un mondo che abbiamo appena iniziato ad esplorare, ma l’ISA ha già rilasciato concessioni per lo sfruttamento di aree grandi quanto la Francia e la Germania messe insieme. Nel 2020 Flora and Fauna International pubblica un rapporto allarmante sull’impatto del deep-sea mining.

“La corsa allo sfruttamento di questo ambiente incontaminato e inesplorato rischia di creare impatti terribili e irreversibili. Dobbiamo essere guidati dalla scienza di fronte a decisioni di così grande conseguenza ambientale “.

Sir David Attenborough, vicepresidente di Flora and Fauna International.

Lo studio avverte che i piani di sfruttamento del fondale marino potrebbero causare una significativa perdita di biodiversità, l’interruzione della “pompa biologica” degli oceani e la perdita di microrganismi cruciali per lo stoccaggio del carbonio.

Veicolo per esplorare siti di acque profonde
Tecniche distruttive

Il ruolo dei fondali marini nel ciclo del carbonio sul pianeta è stato compreso e valutato solo recentemente. In un precedente articolo di questa rubrica si è parlato dei danni della pesca a strascico, un’attività che libera il carbonio dai sedimenti ed è di fatto inquinante quanto il traffico aereo civile a livello globale. Le tecniche di estrazione su alti fondali sembrano ancora più distruttive. L’ostacolo maggiore allo sfruttamento è il trasporto del materiale estratto verso la superficie. Il problema, stando ai progetti, verrebbe aggirato triturando il materiale, e con esso immense porzioni di fondale, per poi consegnarlo a nastri trasportatori. Oppure aspirandolo, misto ad acqua, con pompe chilometriche. Il processo, fanno notare gli studi, oltre a danneggiare il fondale potrebbe creare pennacchi di sedimenti. I sedimenti non solo potrebbero contenere carbonio, ma anche fanghi e sostanze tossiche in grado di soffocare o uccidere flora e fauna in aree lontanissime dai siti d’estrazione. Anche secondo Greenpeace l’ISA non ha valutato sufficientemente l’impatto ambientale di queste attività. Ed ha prodotto un rapporto esplosivo, che indaga non solo l’impatto ambientale, ma anche quello sociale e geopolitico di queste attività.

Greenpeace: ‘lacune, potenziali conflitti d’interesse e influenze lobbistiche’. Il rapporto

Fra i 30 membri della commissione dell’ISA, fa notare Greenpeace, solo tre sono biologi o specialisti in scienze ambientali. La commissione tecnica è sostanzialmente dominata da giuristi e geologi. ISA percepisce 500.000 dollari per ogni licenza concessa, e questo l’espone ad un potenziale conflitto di interessi. Di fatto, non ha rifiutato nessuna delle 30 domande di esplorazione ricevute. Non solo: tre aziende soltanto, di nazioni molto sviluppate, hanno ottenuto otto dei nove contratti di esplorazione della zona del Pacifico Clarion-Clipperton: la canadese Deep Green, la belga Deme, e una consociata britannica della Lockeed Martin, noto produttore di armamenti. Questo stride con i principi della risoluzione 2749 delle Nazioni Unita, e cioè che: il “patrimonio comune”, delle risorse dei fondali marini, dovrebbero portare benefici a tutta l’umanità e promuovere lo sviluppo sostenibile.

Macchine per l’estrazione dei fondali marini prodotte da Nautilus Minerals | © Nautilus Minerals

Greenpeace ha anche investigato sul ruolo delle società che operano spesso in partnership con piccoli stati insulari con quote governative. In caso di incidente le filiali, spesso piccole, potrebbero lasciare le nazioni povere a fronteggiare enormi responsabilità.

Con un precedente importante: nel 2019 la società Nautilus fallì, lasciando al governo di Papua gli oneri della bonifica per i danni prodotti. Molte di queste grandi compagnie in sede ISA si comportano come dei portavoce dei governi, e spesso si sostituiscono a loro. Dovrebbe scuoterci, ma purtroppo è la solita triste realtà: quante volte Eni, Exxon, de Beers (solo per citarne alcune) hanno influenzato i governi al punto di sostituirsi a loro, nell’esercitare pressioni esterne ed interne, o nel valutare impatti ambientali, o nella gestione dei danni? Dire che alcune compagnie minerarie siano le vere proprietarie di alcuni paesi non è una mera provocazione: la storia dell’Africa ci insegna che, nella sostanza, è vero. Mentre la storia dell’Occidente è fitta di intrusioni e manipolazioni, basti pensare agli studi ‘mirati’, per non dire falsi, prodotti per negare l’origine antropica del riscaldamento globale e propagati da reti e testate compiacenti. Un’influenza in grado di cambiare gli assetti globali quanto quelli interni. Ed ora che i fondali oceanici, che abbiamo appena iniziato a studiare, vengono consegnati alle compagnie minerarie prima che ai ricercatori, con tutta la fiducia nei buoni propositi e nel senso di responsabilità espresso dalle compagnie, lascia interdetti.

David Attenbourgh e Greenpeace hanno lanciato un accorato appello per una moratoria internazionale. Non è una questione di remore ideologiche: non abbiamo alcuna garanzia scientifica sulla possibilità che questa nuova frontiera non si trasformi un un disastro. E con la mancanza di chiarezza, denunciata da Greenpeace, questa frontiera ha già tutti i numeri per trasformarsi nel più grande disastro tra quelli che abbiamo provocato.


Foto gallery © chinadialogueocean.net

 

 
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