Il mare si sta riempiendo di plastica, ed alcuni scienziati hanno cercato di capire da dove viene la plastica, quale fosse stato il suo utilizzo prima di raggiungere le coste e come è arrivata fin lì. Due studi condotti da un pool internazionale di ricercatori ci mettono davanti a scoperte scioccanti e a scelte ormai inderogabili.
L’idea dei ricercatori dell’Università di Cadice, in Spagna, era abbastanza semplice: stilare una classifica dei principali oggetti che inquinano il mare per fornire un’indicazione a tecnici e governanti. Ma abbastanza presto si rendono conto che mettere insieme dati provenienti da tutto il mondo non lo è affatto; possono attingere da ben 30 database contenenti circa 12 milioni di osservazioni, ma i dati sono stati raccolti con criteri e metodi diversi.
Carmen Morales-Caselles, capo progetto, ha scritto sul suo blog: “era come comparare delle mele con delle arance.” Ma alla fine i 26 scienziati provenienti da discipline diverse, vincono la sfida. E pubblicano due studi, uno sulla natura dei rifiuti in mare, l’altro sulla loro origine. Vengono pubblicati entrambi su Nature il 10 giugno del 2021 e subito rimbalzano sui media più attenti, come The Guardian e BBC.
I risultati sono lo specchio del fallimento delle nostre abitudini e delle nostre politiche sulla plastica
Tra gli oggetti più grandi – quelli di dimensioni maggiori di un pollice (2,5 cm) – otto su dieci sono di plastica, ma questo i ricercatori se lo aspettavano già. Forse non si aspettavano che la metà della plastica presente negli ecosistemi acquatici fosse legata all’alimentazione umana: sacchetti, contenitori per alimenti, posate e bottiglie per bevande, tappi e coperchi, rigorosamente di plastica, questi costituiscono circa la metà dei rifiuti sversati negli ecosistemi acquatici.

Questi rifiuti, sottolinea lo studio, tendono ad accumularsi nelle aree costiere, mentre cominciano a diradare in mare aperto, dove invece prevalgono oggetti legati alla pesca e alla navigazione, come reti, galleggianti e cordame. Sostanzialmente, almeno il 78% dei rifiuti non è legato alle attività marine, e la gran parte di essi provengono dall’attività umana forse più importante: l’alimentazione.
L’industria alimentare e quella della ristorazione veloce, dai fast-food ai pranzi a bordo degli aerei di linea, contribuiscono per più della metà della plastica in mare, sono la massa critica. Le famose cannucce, oggetto di una sacrosanta campagna di sensibilizzazione e di divieti imposti a livelli nazionali, costituiscono solo il 2-3% del totale. E questo non perché siano state bannate: quello che osserviamo oggi in mare è ciò che è stato gettato negli anni passati. Sostanzialmente, sostengono i ricercatori, si è fallito nell’identificazione dei target prioritari.

La plastica proviene soprattutto dai paesi con maggiori capacità di gestione dei rifiuti
E come tutti gli altri inquinanti ci arriva portata dai fiumi. Quasi il 40% è costituito da frammenti di oggetti più grandi che iniziano a disgregarsi in fiumi e torrenti prima di raggiungere il mare. Gli studi precedenti non avevano preso in considerazione i bacini idrografici con una superficie inferiore ai 100 kmq. Si è invece scoperto che questi contribuiscono per il 70%. La spiegazione a questa apparente incongruenza è molto semplice: i fiumi di maggiore portata e lunghezza sono quelli che ospitano più dighe, depuratori ed altri sbarramenti in grado di frenare la plastica lungo la sua corsa verso il mare. Sono quindi i piccoli fiumi, torrenti e rivoli attivati ad intermittenza dalle piogge a trasportare la maggior parte della plastica.
Ma la ricerca evidenzia soprattutto che i paesi europei rilasciano in mare ogni anno anno più di 600 milioni di macro-rifiuti galleggianti (> 2,5 cm).
E che il 64% di questo fardello per i mari proviene da economie ad alto reddito, tra cui l’Italia è la prima, davanti a Regno Unito, Spagna e Grecia. Ma tra i 32 paesi eurasiatici osservati è la Turchia, un’economia a reddito medio-alto con più di 80 milioni di abitanti, il principale inquinatore. Dalla Turchia proviene il 17% della plastica che giunge al mare. Secondo Andrés Cózar, coautore dello studio e capo Marine Litter Lab dell’Università di Cadice,
“Questo accade in uno scenario in cui le economie ad alto reddito stanno alleviando la pressione sui loro sistemi esportando plastica in paesi terzi.”
Secondo un’indagine di Greenpeace, ampiamente riportata da The Guardian, la Turchia è diventata una delle maggiori destinazioni per lo smaltimento della plastica dopo lo stop della Cina alla sua importazione. Nel 2020 il Regno Unito da solo avrebbe esportato in Turchia 688.000 tonnellate di plastica. Si tratterebbe di plastica di bassa qualità, poco redditizia per chi si occupa di riciclo. Il risultato è agghiacciante: questa plastica viene per lo più bruciata o sepolta. Parte di essa finisce in mare.
Se la gestione della plastica è fallimentare…
non resta che percorrere altre vie. È evidente che la falla sia soprattutto in un sistema che, per quanto avanzato, non riesce a garantire uno smaltimento adeguato, un sistema che non riesce a interrompere il flusso dei rifiuti in plastica verso l’ecosistema più sensibile a questo tipo di inquinamento, il mare. Dove la plastica resterà per qualche migliaio di anni prima di decadere. Con gli effetti che ormai tutti conosciamo.
Conosciamo anche quali sono le strade percorribili, ma davanti a un fatto vitale come l’igiene e la conservazione degli alimenti il peso delle scelte dell’industria e dei legislatori è maggiore rispetto a quelle del consumatore. Per quanto il consumatore possa rinunciare all’uso di posate di plastica ai barbecue o nei pranzi all’aperto, o possa scegliere di comprare alimenti sfusi o al banco anziché in vaschette preconfezionate, in molti altri casi non ha scelta.

Inoltre il Covid-19 ha ulteriormente indirizzato il consumatore verso gli alimenti sigillati. La risposta è in una riduzione drastica dell’uso della plastica ovunque non sia insostituibile. L’uso di plastica biodegradabile è ancora molto dibattuto, sia per le sue caratteristiche di impiego che per il suo corretto smaltimento, che dovrebbe avvenire in aree di compostaggio ma finisce per la gran parte in discariche o in luoghi secchi che inibiscono il suo decadimento. Per quanto la norma europea imponga come caratteristica un decadimento del 90% entro sei mesi dal compostaggio, c’è molto scetticismo, anche a fronte di studi che evidenziano risultati contrastanti sui vari prodotti, anche sulla loro persistenza in mare.

Di nuovo la scienza s’è fatta carico di una indagine che solo venti anni fa avremmo ritenuto impossibile: il conteggio e la classificazione dei rifiuti presenti in mare a livello globale, e stabilire la loro origine. Di nuovo il lavoro di centinaia di scienziati, uomini e donne impiegati nella ricerca ci indica gli anelli deboli o mancanti di una gestione fallimentare. Ma ci offre anche una riflessione importante su cosa siamo diventati e dove stiamo andando come esseri umani. Cito, tradotto un passo dell’Abstract di uno dei due studi:
“Nel complesso, questo studio aiuta a informare sulle azioni urgenti necessarie per gestire la produzione, l’uso e il destino degli articoli prodotti dall’uomo più inquinanti sul nostro pianeta, ma la sfida rimane sostanziale.”
- https://www.nature.com/articles/s41893-021-00720-8
- https://www.nature.com/articles/s41893-021-00722-6
- https://sustainabilitycommunity.springernature.com/posts/an-inshore-offshore-sorting-system-revealed-from-global-classification-of-ocean-litter
- https://www.cnr.it/it/news/10357
- https://www.theguardian.com/environment/2021/may/17/uk-plastics-sent-for-recycling-in-turkey-dumped-and-burned-greenpeace-finds
- https://www.plymouth.ac.uk/news/biodegradable-bags-can-hold-a-full-load-of-shopping-three-years-after-being-discarded-in-the-environment