Ho iniziato a viaggiare nell’Artico esattamente sette anni fa. All’epoca della mia prima incursione in Islanda non lo sapevo, ma di fatto stavo creando una sorta di canovaccio che si sarebbe rinnovato negli anni successivi: due o tre settimane all’anno di viaggio rigorosamente in solitaria a piedi o con i mezzi pubblici (sempre e comunque senza macchina) in giro per il Nord Europa. Viaggio in solitaria – forse è utile puntualizzarlo – rivendicato per scelta e non per necessità. A Parigi, anzi, ho un compagno a cui non è stato facile chiedere di accettare questa parentesi annuale di solitudine che esula dai cliché del rapporto di coppia e che per me è diventata irrinunciabile. Il risultato sono stati quattro viaggi in Islanda, una puntata in Groenlandia e diversi vagabondaggi all’estremo Nord di Svezia, Norvegia e Finlandia.

Sono sempre stata più o meno consapevole di avere un mio metodo di viaggio. E anche una mia visione. È solo sulla scia della pandemia, però, che ho pensato che nel mio personalissimo modo di viaggiare potesse esserci qualcosa di utile anche al di fuori della mia esperienza personale. Si è molto parlato dell’impatto del Covid sul mondo del turismo. Un po’ meno si è detto di quanto la pandemia abbia influito sul viaggiare, che non è esattamente sinonimo di turismo. Il turismo, nelle sue mille implicazioni, coinvolge preferenzialmente il rapporto con la realtà esterna: in termini economici, culturali, urbanistici ecc. Il viaggiare, invece, è sempre bidimensionale: implica, cioè, un rapporto osmotico tra realtà esterna e mondo interiore. Si può “viaggiare dentro sé stessi” ma non si può “fare turismo dentro sé stessi”.

È fuor di dubbio che il Covid abbia avuto un impatto notevole sul mondo del turismo. Se però si considera la cosa dal punto di vista del viaggiare, la bilancia non pende solo in negativo. Chi, come me, non ha smesso di muoversi negli ultimi due anni, si è reso conto di quanto sia bello il mondo senza il turismo di massa. Ho toccato la cosa con mano a Parigi, dove vivo per metà del mio tempo. Montmartre senza comitive è bellissima. Place du Tertre senza pittori di bassa risma riacquisisce un fascino che di solito non ha. La tour Eiffel che svetta in mezzo al nulla, nel deserto del Champ de Mars, ha una bellezza quasi dechirichiana.
Rendercene conto è un dono, ma è un dono che implica qualcosa: non dobbiamo, per nessun motivo, tornare a come eravamo prima. Dobbiamo trovare un modo per disinnescare quel mefistofelico ordigno che riversa annualmente sulle strade del mondo tonnellate di masse anonime e inconsapevoli. Senza dubbio, le politiche dei diversi Paesi giocheranno un ruolo di primo piano; sono convinta, però, che la parte del leone la facciano sempre i singoli individui. È a loro che bisogna rivolgersi. È a loro che bisogna proporre nuovi modi di viaggiare: non presentando soluzioni standard buone per tutti ma suggerendo modelli che stimolino (in modo maieutico) il fatto che ognuno trovi, da sé, il proprio unico e irripetibile modo di viaggiare. È in questo senso che credo – spero – che la mia esperienza di viaggi in solitaria nell’Artico possa tornare utile.

La sindrome di Parigi (che non colpisce solo i giapponesi)
Qualche anno fa, mentre mi addormentavo sul pavimento dell’aeroporto di Reykjavik, mi è venuta in mente una frase che di fatto riassume in toto la mia filosofia di viaggio: “Viaggiare è farsi Acqua”. Quando scavalco per l’ennesima volta il Circolo Polare Artico, a parte un paio di “tappe catenaccio”, decido i miei itinerari strada facendo. Non mi preparo leggendo libri, non compro guide. Farsi Acqua, per me significa questo: assumere la forma delle cose. Lasciare che, in un certo senso, il viaggio si faccia da sé. Ridurre al minimo le aspettative.
Un esempio pratico: quando sono tornata in Finlandia in inverno, non ci sono andata per vedere l’Aurora boreale. Che peraltro, infatti, non ho visto. A un amico finlandese che mi descriveva le scene di pianto di turisti arrivati apposta dalla Cina per vedere le gettonatissime Northern lights (in Cina si dice che vederle permetta di concepire figli maschi) ho raccontato della Sindrome di Parigi. Una vera e propria patologia psichica che colpisce un certo numero di turisti giapponesi in viaggio nella capitale francese. Il primo a riconoscere questa sindrome, nel 1986, fu un medico giapponese emigrato in Francia, Hiroaki Ota, dando il via a una serie di ricerche che l’Hotel Dieu avrebbe poi portato avanti negli anni Duemila. Secondo gli psicologi, molti turisti giapponesi, abituati a un immaginario da cartolina foraggiato dall’industria cineturistica (vedi “Midnight in Paris” di Woody Allen), davanti alla Parigi reale sperimenterebbero una delusione profonda, che si esprime in sintomi come depersonalizzazione, allucinazioni, manie di persecuzione, ansia, tachicardia ecc.

Insomma, nutrire aspettative fabbricate a priori costa. Sul versante psicologico – anche senza arrivare a certi estremi – ma non solo. Le aspettative dei turisti costano anche ai Paesi (che spesso le nutrono generando un circolo vizioso) e il prezzo si paga in termini di massificazione e perdita dell’autenticità del luogo. Si è molto parlato di cineturismo: di come, quindi, il cinema possa influire sullo sviluppo dell’economia turistica. Basti pensare all’impatto di “Game of Thrones” sull’aumento del turismo in Islanda, ai tour dedicati ai luoghi in cui sono stati girati i film di Harry Potter in Gran Bretagna o al vertiginoso incremento del turismo in Nuova Zelanda dopo l’uscita de “Il Signore degli anelli”. Facile parlarne solo in termini di aumento dell’indotto. La verità ha sempre un lato A e un lato B e i costi di questo tipo di turismo sono salatissimi. Chi parte per seguire le tracce di Jon Snow nel parco di Thingvellire, non lo fa per conoscere l’Islanda così com’è: lo fa per trovare qualcosa. E se il Paese – fiutando la gallina dalle uova d’oro – decide di dare in pasto al turista ciò che il turista chiede, il rischio di depersonalizzazione e depauperamento identitario dei luoghi è una realtà.
Ode alla serendipità
Serendipity è una cosiddetta “parola d’autore”: un termine, cioè, che venne coniato più o meno tre secoli fa, da Horace Walpole per spiegare l’attitudine di fare felici scoperte per puro caso. “Serendipità è cercar un ago nel pagliaio e trovarci la figlia del re” ha scritto un medico americano cogliendo il nocciolo di un motore narrativo usato molto anche a livello di storytelling e in diverse teorie della fiaba.

Nella mia prospettiva di viaggio in solitaria, lasciare aperte le porte al caso ed evitare di programmare tutto mi ha permesso di incappare in imprevisti bellissimi. Gli incontri migliori, li ho fatti grazie a tutti gli autobus che ho perso o semplicemente attaccando bottone con un estraneo davanti a una tazza di tè. Perché viaggiare da soli, significa anche questo: quando non si ha la stampella emotiva dei compagni di viaggio, si impara a parlare con gli sconosciuti. È così che in un paese di pescatori di gamberetti, sulle coste dell’Islanda del Nord, ho conosciuto Madara e sono finita a una fiera agricola che mi ha aperto gli occhi sulla natura profondamente rurale dell’isola. In Finlandia, un autobus perso mi ha permesso di conoscere Osmo e di finire, con lui, in un villaggio sul confine russo con una storia bellissima. In Svezia, una signora incontrata in pasticceria mi ha dato il numero di Eva Gunnare, “la signora delle erbe” che mi ha portata nei boschi a conoscere la flora artica. Serendipità, appunto: la incontri solo se non la cerchi.

L’antidoto all’horror vacui? È il vuoto
Quando sono andata per la prima volta a Nuuk, in Groenlandia, c’è una cosa che mi ha stupita: la distanza tra una casa e l’altra. Nonostante io detesti gli affollamenti, sono pur sempre una persona che viene da un Paese di sessanta milioni di abitanti. In fondo non è così strano che arrivare in un luogo, con un tasso di popolamento e di densità bassissimi, mi abbia fatto scattare l’assurda domanda “Ma perché non stanno più vicini, visto che sono così pochi?” La risposta in realtà c’è ed è la stessa che spiega perché un conducente che si fa sei ore di autobus di fila attraverso la Lapponia finlandese, non accenderà la radio e non metterà su musica come si fa di solito qui in Italia. Molto semplicemente, chi ha più dimestichezza con il vuoto, non soffre di horror vacui. È un dato di fatto.

Ci ho ripensato quest’anno, quando – tornata in Finlandia – mi sono fatta diciotto chilometri a piedi per piantare la mia tendina in un posto totalmente immerso nel nulla. A sessanta chilometri dall’ultimo negozio e dall’ultimo supermercato e a diciotto chilometri – appunto – dall’ultimo gruppuscolo di case. Quando si parte all’avventura, da soli, è sempre bene evitare di farlo d’impulso. Il che significa mettere da parte ogni riserva di romanticismo e sfoderare la più prosaica concretezza, calcolando scrupolosamente i rischi reali. La natura non è un cartone animato di Walt Disney dove l’orso Baloo balla allegramente con una pantera. Amare la natura significa soprattutto vederla per ciò che è, né buona né cattiva: semplicemente lontana anni luce da qualsiasi forma di antropocentrismo. La natura non è al nostro servizio e questo significa che i pericoli esistono e vanno messi rigorosamente in conto.

Nel mio caso, sapevo che le possibilità di incontrare un orso, un lupo o un ghiottone e di essere attaccata erano remote. Incontrare altri esseri umani era un’eventualità ancora più improbabile. Sapevo bene, quindi, che l’unica cosa con cui avrei dovuto avere a che fare era il vuoto. E il vuoto può essere gestito solo in un modo: tuffandocisi dentro. Quando il silenzio ti riempie le orecchie come ovatta o gli unici rumori che senti, di notte, sono il passo di una renna che si avvicina alla tenda o il tuffo delle anatre selvatiche, la prima cosa da fare è liberare il respiro. E farlo con metodo. “Pranayama: la dinamica del respiro” è un manuale di André Van Lysebeth che, da questo punto di vista, offre un metodo rigoroso.
Imparando a respirare, si capiscono molte cose: quanto spesso, per esempio, viviamo in uno stato di semi apnea per “tenere fuori”, letteralmente, cose o situazioni che non ci piacciono. Viene spontaneo farlo anche col vuoto, ma reagire e respirare a pieni polmoni innesca un’inversione di rotta. Fare pulizia delle proprie tossine interiori, liberare spazio sul proprio hard disk mentale, prendersi il sacrosanto lusso di non fare nulla, lasciare emergere quella facoltà che Jung definiva “immaginazione attiva”: sono tante – e sicuramente molto soggettive – le cose che un onesto e non edulcorato faccia a faccia col vuoto può innescare.
E poi c’è un’altra cosa che il vuoto porta alla luce: la libertà. E qui torniamo all’impatto delle azioni individuali sul nostro macrocosmo sociale. Vivere immersi in una società del pieno – lo dico parafrasando il concetto di José Ortega y Gasset – dove lo spazio è sempre e comunque da colmare (di rumore, di cibo, di cose, di impegni) comporta un logoramento che non percepiamo solo perché ormai ci siamo assuefatti. Un po’ come la famosa rana bollita di Noam Chomsky. Viaggiare da soli insegna a interagire con quel vuoto e a integrarlo nel proprio percorso. Quando ci liberiamo della zavorra di certe paure, siamo molto meno gregge di quanto pensiamo. Il viaggio in solitaria, in questo senso, è una paziente opera Lustrazione capace di smorzare l’istinto gregario e le sue naturali conseguenze. Turismo di massa in primis.
