Cronache artiche. Andare per montagne nel grande Nord

Nei miei vagabondaggi artici, c’è un paradosso che ho sempre trovato interessante. Se in Italia, l’amore per la montagna è il protagonista assoluto delle mie spedizioni “in solitaria”, quando sono su al Nord le caratteristiche stesse del paesaggio rendono molto rare le mie incursioni montane. I dislivelli che copro, peraltro, sono davvero minimi rispetto ai mille, millecinquecento metri giornalieri che sono abituata a farmi in Italia.

Kvaløya | © Lars Tiede

Eppure (ed è qui che sta il paradosso), nonostante l’altitudine limitata, le mie esperienze montane nel Grande Nord hanno sempre avuto uno spessore e un’intensità da alta quota. Merito, probabilmente del contesto meno antropizzato rispetto a quello sudeuropeo. Merito anche, però, della radicale diversità del territorio che rende gli scenari montani nordeuropei profondamente diversi rispetto alle mete nostrane.

Su al Nord, non solo la vetta è più selvaggia: è più selvaggia anche la valle. Così come sono diverse le insidie del territorio e del suo clima. Per non parlare della solitudine e del silenzio, che hanno un peso specifico decisamente superiore: una densità magnetica capace di risvegliare, alle radici, il significato simbolico e lo spessore archetipico della montagna.

Islanda | © Martina Fragale
La montagna e i suoi simboli

Andare in montagna, per me, non è mai stato questione di sport. O almeno, non solo. La salita e la discesa, l’impatto visivo – sovrastante – con la massa montuosa, la complementarietà tra valli e cime hanno una capacità innata di risvegliare immagini e significati. Non solo per me. Ogni amante della montagna ha senz’altro i suoi buoni motivi per mettersi in cammino ma al di là delle ragioni personali, esiste tutta una selva di simboli che attingono all’immaginario collettivo. Un patrimonio sotterraneo e condiviso.

Non mi riferisco solo alle religioni tradizionali (Mosè che riceve le tavole della legge sul monte Sinai, l’arca di Noè che si arena sulle cime dell’Ararat o Gesù ai piedi del monte degli Ulivi) ma anche al magma, densissimo, del grande crogiolo esoterico. E qui la montagna si frammenta in un prisma di immagini e leggende: il Montsalvat di Parsifal, per esempio. O il Monte Abiegnus: l’arcana Montagna delle Caverne dei Rosacroce. “È là in alto, senza una strada da percorrere se non quella che si deve trovare. All’ombra del monte Abiegnus, il mio sogno è di incontrarla”, scriveva Fernando Pessoa. E sempre su una montagna sacra, alla ricerca di qualcosa, si inerpicano gli strambi protagonisti dell’omonimo film di Jodorowsky.

Norvegia | © Martina Fragale

Ascesa e ascesi sono gemelli separati alla nascita. Un binomio che richiama la solitudine dei sentieri meno battuti e di un senso dell’orientamento che deve spesso e volentieri far riferimento solo a se stesso. La ricerca di qualcosa che sostanzialmente non si conosce (la vetta, o comunque la meta) è il nucleo pulsante di questo percorso “per aspera ad astra”. In questa prospettiva, la montagna (e le caverne che le fanno da contrappunto) sono un potente crogiolo trasformativo. Proprio come l’athanor degli alchimisti. Davvero, non stupisce lo strettissimo legame con il Divino.

Al tempo stesso, tuttavia, la montagna è anche qualcosa di molto umano. Uno specchio impietoso, che pone chi la scala davanti a se stesso e ai propri limiti. A suo rischio e pericolo, perché – proprio come il re della fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore” – davanti alla montagna si è sempre nudi.
E soprattutto, la montagna non perdona.

Tromsdalstinden: quando le nuvole precipitano a terra

Uno dei leitmotiv che hanno scandito il mio andare per montagne, in Nord Europa, è proprio questo: il faccia a faccia con il senso del limite. Sotto questo aspetto, il rapporto tra l’uomo e la montagna viaggia sul filo di un equilibrio ossimorico. La montagna (o meglio: la salita) è un costante invito al superamento del limite. Ma il superamento del limite, se non è dosato alla luce della realtà, implica sempre – giocoforza – la caduta. È il mito della torre di Babele, del volo di Icaro e anche dell’intraducibile phthonos ton theon: il peccato di tracotanza che nella tragedia greca portava l’eroe a sfidare i limiti imposti dagli Dei.

Ci ho pensato su qualche estate fa mentre scalavo il Tromsdalstinden: una montagna non particolarmente alta alle spalle di Tromsø, nella Lapponia norvegese. Nei dintorni del Circolo Polare Artico, c’è un fenomeno particolare in cui mi è capitato spesso di imbattermi e che paradossalmente non so come chiamare. Non ne conosco le cause ma se si viaggia in estate, è necessario tenerne conto: credo che si possa parlare di frequenti e spesso improvvisi fenomeni di nuvole basse. Nell’incertezza, mi sento molto banalmente di dire che su al Nord, spesso e volentieri “le nuvole cadono”. E se questo ti capita mentre sei in montagna, c’è poco da scherzare.

Norvegia | Martina Fragale

È quello che mi è successo sul Tromsdalstinden. Quel giorno, a causa del tempo, avevo iniziato la salita troppo tardi. La mia idea era quella di arrivare pressappoco a metà strada. Se non che, il potere attrattivo del paesaggio e i colori cupi ma vivissimi del pomeriggio avevano innescato il tipico canto delle sirene, comune tanto al mare quanto alla montagna. Ogni svolta del sentiero mi invitava ad andare avanti e spostava un po’più in là il limite che mi ero preposta. “Ancora dieci minuti” continuavo a dirmi “Giusto il tempo di vedere cosa c’è al di là della prossima svolta”.

Ho capito di aver superato il limite quando arrivata all’ennesimo laghetto montano, mi sono girata e ho visto un’imponente massa di nubi che fagocitava il paesaggio alle mie spalle. No, non era nebbia ma un vero e proprio matrimonio solenne tra cielo e terra. Sul momento, ho provato una certa inquietudine. Mentre aspettavo che la visibilità tornasse a essere abbastanza accettabile da permettermi di tornare a valle, mi è tornata in mente una delle pagine più belle (e più vere) di “Un tè nel deserto”, il romanzo più celebre di Paul Bowles. Tre ragazze provenienti dalle montagne, racconta Bowles, un giorno scesero nel Sahara per realizzare il loro sogno più grande: quello di bere un tè fra le dune. Raggiunto il luogo scelto per realizzare il loro sogno, però, le tre donne non si fermarono e iniziarono a peregrinare di duna in duna, alla vana ricerca della cima più alta. Giorni dopo, le tre fanciulle vennero trovate morte da una carovana di passaggio. Davanti a loro, le tazze per il tè che non avevano mai bevuto erano piene di sabbia.
Una fiaba triste, che ha il colore del deserto e la consistenza dei miraggi ma che ricalca in modo perfetto l’ordalia del limite. E il suo legame a filo doppio con la montagna.

Le insidie della valle, nell’entroterra di Dalvik

Quando si viaggia in solitaria nell’Artico, non bisogna mai dimenticare che il paesaggio è “altro”da ciò a cui siamo abituati: la stessa cosa vale per la montagna. E per la valle, che ne rappresenta il logico contrappeso. La montagna è convessa, la valle è concava: maschile e femminile. La vetta è uno sprone, la valle è un alveo che accoglie. Eppure, nel Grande Nord, l’accoglienza materna della valle non è priva di insidie e può trasformarsi nelle tendenze fagocitanti della mater obscura. O della strega che divora i bambini, uno dei tanti darkside della figura materna.

Islanda | © Martina Fragale

In questo senso, la mia esperienza più significativa l’ho vissuta nell’entroterra di Dalvik, nell’Islanda del Nord. Quel giorno mi ero inerpicata lungo un sentiero semplicissimo, praticamente tutto a valle: il Kofi Trail. Dislivello irrisorio e poco più di 12 chilometri tra andata e ritorno.

Per di più (eccezione assoluta) quel giorno non ero sola. Un ragazzo scozzese, che parlava in modo per me incomprensibile e viaggiava ovunque con i suoi effetti personali in un sacchetto della spesa, aveva voluto a tutti i costi venire con me. E “mal gliene incolse”, come si suol dire.

A dispetto del soprannome, la “terra del ghiaccio e del fuoco” in realtà è zuppa d’acqua e uno degli scenari più consueti che ne scandiscono il paesaggio, sono le cosiddette paludi artiche. Una tundra variopinta di muschi e licheni che brillano al sole: bellissimi da vedere. Appoggiarci un piede, però, significa affondare nel fango: fino alle caviglie se ti va bene e fino all’inguine se ti va male. In Svezia e in Finlandia, le paludi artiche sono rigorosamente disciplinate dalle classiche passerelle di legno, così tipiche del paesaggio lappone. Sul Kofi Trail, però, non c’era nulla di tutto ciò.

Norvegia | © Martina Fragale

Sulla via del ritorno, un banco di nebbia cancellò ogni traccia di sentiero e in assenza di passerelle, io e il mio compagno d’avventura riuscimmo a riemergere dalla valle con due ore di ritardo sulla nostra tabella di marcia. L’ultimo autobus per Akureyri, dove alloggiavamo entrambi, era partito e noi eravamo completamente ricoperti di fango. Per rimediare un passaggio in autostop dovevamo per forza renderci presentabili. Ed è così che, con una temperatura di sei gradi e sotto una pioggerella insistente, finimmo per lavarci in un torrente gelato.

Il trotto delle renne e un davanzale sui fiordi

Eppure, su al Nord, i miei rendez-vous con la montagna non sono sempre stati duri. A volte, la bellezza ha fatto capolino sulla scia di un sentiero semplice, privo di asperità e di sfide. Il rapporto con la montagna, di base, è questione di redini: significa saper cavalcare i propri impulsi ma sapersi mettere anche dei paletti. Un aspetto fondamentale a maggior ragione se si viaggia nell’Artico. Non è solo con l’autocontrollo, però, che si affrontano salite e discese. Il segreto sta piuttosto nell’equilibrio tra la capacità di tenere le redini e la disponibilità ad allentarle quel tanto che basta a permettere alla montagna di stupirci.

Monte Kjolen | © Martina Fragale

Uno degli scenari montani più belli che il Nord mi ha regalato, è quello del monte Kjolen: una montagna sotto i mille metri sulla cosiddetta Kvaløya, l’“isola delle balene,” davanti a Tromsø. Un’ascesa semplicissima e graduale, un continuum di piccoli laghi azzurri e di muschio verde vivo e una cima vasta e spazzata dai venti: una sorta di ampia terrazza naturale a strapiombo sui fiordi e con il mare aperto all’orizzonte. Alle pendici del monte, ad attendermi in quel pomeriggio di fine agosto, ho trovato una ventina di renne che trottavano libere e felici. Un incontro senza precedenti e che nei miei viaggi nell’Artico non si è più ripetuto.

L’odore salmastro dei fiordi, il profumo del vento, il ritmo scuro – animale – della terra. Se, come ha detto qualcuno, la montagna è un incontro alchemico tra terra e cielo, la bellezza di quelle “nozze chimiche” io l’ho respirata lì, sull’Isola delle Balene. In cima a un monte che, sulla cartina, non mi era sembrato un granché. Anche su al Nord, la bellezza non è questione di metri.

Aurora Boreale su Kvaløya | © Lars Tiede
 
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