Il 18 marzo, presso la sede delle Nazioni Unite a New York, il mondo ha visto sfumare quella che era stata descritta come la possibilità del secolo per regolamentare gli oceani. Dopo ben quattro incontri, venti anni di studi, dieci di lavori.
Cominciamo dall’inizio, dal problema
Una superficie di quasi due terzi degli oceani, più precisamente il 64%, si trova al di fuori delle zone economiche esclusive (ZEE), che si estendono per circa 200 miglia dalle coste dei singoli stati. In questa immensa porzione di mare una moltitudine di organizzazioni internazionali si sforza di regolamentare le attività umane e lo sfruttamento risorse marine. Spesso giurisdizioni e mandanti si sovrappongono, oppure entrano in conflitto. La mancanza di un quadro completo e condiviso che governi lo sfruttamento e la conservazione del mare pone di fatto le acque internazionali in un limbo. Sostanzialmente, in aree al di fuori delle zone economiche esclusive, vale la legge del far west.
Perché occorra al più presto una regolamentazione l’ha messo in chiaro il dott. Essam Mohammed, rappresentante dell’Eritrea nei negoziati e direttore generale ad interim di WorldFish, un ente internazionale di ricerca senza scopo di lucro:
“Al momento per queste acque c’è un vuoto di governance, e per l’oceano e i paesi in via di sviluppo, lo status quo semplicemente non è un’opzione. Il rapido progresso della tecnologia navale porterebbe a una corsa senza precedenti alle risorse marine in acque non regolamentate. Il ritardo nel concludere un accordo significa un rischio elevato per la salute degli oceani.”

Ocean Biodiversity Information System riporta che in questa vasta area, quasi la metà dell’intero pianeta, tra pesci, mammiferi, rettili, uccelli e invertebrati, sono state censite circa 27.000 specie, molte delle quali non sono state sufficientemente studiate, altre sono ancora sconosciute. Inoltre, ciò che accade in pieno oceano influisce sugli ecosistemi delle ZEE e viceversa: la vita marina non riconosce i confini tracciati dall’uomo.
L’alto mare peggio dello spazio
Le Zone Economiche Esclusive sono frutto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, adottata a Montego Bay nel 1982. Lo scopo era fare un po’ d’ordine visto che il concetto di acque territoriali era un po’ vetusto e si basava su una evoluzione del principio di Cornelis van Bynkershoek, giurista olandese del XVIII secolo, secondo il quale le acque territoriali dovevano corrispondere alla gittata di un colpo di cannone (che all’epoca era di tre miglia nautiche).
L’idea di zona economica esclusiva, invece, si adattava meglio alla sostanza sempre più commerciale del mondo moderno. Tutto ciò che restava al di fuori delle ZEE si rifaceva al Mare Liberum descritto nell’opera eponima di un altro giurista olandese, Ugo Grozio. La gran parte della vastità degli oceani, quindi, restava una zona sostanzialmente senza regole, con meno regole dello spazio orbitale. Un piccolo passo era stato fatto solo sui fondali oceanici che, non senza fatica, erano stati dichiarati bene comune globale ma affidati sostanzialmente al buonsenso della comunità internazionale. Sì, al buonsenso. E qui varrebbe la pena aprire una parentesi sulla necessità delle regole: i giuristi sanno che ogni deregulation finisce per favorire potentati, monopoli e organizzazioni criminali. Queste ultime, va detto, traggono profitti anche dall’opposto, da regole troppo restrittive.

MGR, risorse genetiche marine
Un passo successivo è stato compiuto, sempre in sede ONU, con l’Intersessional Workshop sulla conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità marina oltre le aree di giurisdizione nazionale, nel 2013. Si approfondisce il concetto di MGR, che riguarda la vita marina, microrganismi compresi, nella sua interezza, biologica genetica e molecolare, il suo sfruttamento (c’è chi ha brevettato il genoma di capodogli e Manta birostris) e il loro apporto alle specie endemiche per una più ampia varietà genetica. Da questo workshop si arriverà al protocollo di Nagoya.
Ultimo round
Il quarto, per esattezza, si è concluso alle Nazioni Unite il 18 marzo, in piena guerra. Gli stati membri erano stati chiamati per elaborare il trattato BBNJ (biodiversità oltre la giurisdizione nazionale) che avrebbe definito una volta per tutte un quadro giuridico per proteggere la biodiversità e governare le acque internazionali. Sarebbe stato, secondo alcuni scienziati, l’accordo di protezione degli oceani più significativo degli ultimi quarant’anni. Lo scopo del trattato l’ha riassunto magnificamente Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda:
“L’oceano è altamente connesso ma la pesca in alto mare è dominata da paesi ad alto reddito. Una gestione inefficace della biodiversità in alto mare può avere effetti negativi sulle comunità costiere. I dannosi sussidi vanno ad esacerbare le disuguaglianze per la pesca in queste aree: senza questi sussidi, il 54% dei fondali in alto mare non sarebbe redditizio. Ciò che accade nelle acque internazionali ha un impatto su tutte le acque. Un trattato delle Nazioni Unite deve tenere conto della biodiversità in queste preziose aree.

Lo High Seas Treaty (Trattato dal’Alto Mare) deve riflettere il ruolo critico delle specie negli ecosistemi marini. I membri delle Nazioni Unite stanno negoziando per consentire la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità. La maggior parte della pesca in alto mare è in mano a paesi ricchi, ma l’impatto è percepibile in tutto il pianeta. Un management più incisivo di queste acque contribuirà ad una risoluzione più equa.”
Il meeting si conclude in ritardo e con un nulla di fatto. Le organizzazioni ambientaliste accusano gli stati membri di ostruzionismo. Will McCallum, rappresentante di Greenpeace presente ai lavori, ha parlato di ritmo glaciale dei colloqui, di negoziatori intenti a parlare per ore di punti marginali.
Se non si è giunti ad un accordo non è stato solo per punti di vista discordanti, ma soprattutto per la scadenza dei termini dei lavori. Liz Karan, di Pew Charitable Trusts con sede a Washington, ha dichiarato: “Non c’è stato un problema che ha impedito l’accordo finale, ma piuttosto il ritmo dei negoziati è stato così lento che non è stato nemmeno possibile discutere tutta la bozza di testo”. Sabotaggio? Impreparazione dei delegati? Il sospetto cade sulla pesca. Ma secondo Karan i delegati presenti erano probabilmente guidati dai loro ministeri della difesa, dell’agricoltura, della pesca e del commercio, nonché dai loro ministeri dell’ambiente, spesso anch’essi con uno scarso background ambientale. Cosa c’entrano i ministeri della difesa. Il caso più degno di nota è quello del Regno Unito, che sta espandendo le aree marine protette ben oltre le ZEE dei suoi protettorati insulari, soprattutto nell’Indiano e nel Pacifico. Qualcuno lo ha letto come una sorta di ocean-grabbing, in ogni caso, qualunque sia la vera motivazione, per garantire la protezione di aree così vaste e remote servono unità navali militari.

Nonostante l’espansionismo britannico, delle acque al di fuori dei confini territoriali ora è protetto solo l’1,2%. Globalmente non abbiamo protetto neanche il 10% dei mari (siamo al 7,7%), mentre dovremmo proteggerne il 30% entro il 2030. Resta che non c’è nessuna sorveglianza sulla pesca industriale oltre le ZEE, e che serissimi e legittimi dubbi sorgono sugli organi preposti alla protezione dei fondali dallo sfruttamento minerario. Ne abbiamo parlato qui. Russia e Islanda, tra i membri più eminenti, hanno chiesto esplicitamente di escludere la pesca dal trattato. Ora spetta all’assemblea generale delle Nazioni Unite fissare la data per un altro giro di colloqui.

Ancora in alto mare
Nonostante due decenni di discussioni, non esiste ancora un trattato che protegga le acque internazionali, il che rende giuridicamente difficile l’istituzione di aree marine protette o altre misure di salvaguardia per il 64% del mare restante. Ora le speranze sono riposte soprattutto in 50 paesi, tra i quali è presente l’intera UE, che hanno aderito alla ‘High Ambition High Seas Coalition‘, gruppo intergovernativo nato a gennaio con l’impegno di giungere ad un trattato prima della fine del 2022.
Rumorosissime le assenze silenziose di Cina e Stati Uniti. Ma gli osservatori della società civile, le Trust e gli ambientalisti, sono ottimisti. In fondo appena pochi giorni prima, sempre presso le Nazioni Unite e sempre in piena guerra, il pianeta aveva incassato un’ottima risoluzione sulla plastica.
Le parole espresse in un tweet di Helen Clark, ex PM della Nuova Zelanda danno un quadro preciso, cui nessun governo può più sottrarsi:
“Non possiamo permettere che il 95% dei nostri beni comuni globali siano territorio di scorribande senza uno stato di diritto. Sfortunatamente, questo è il rischio che si corre in assenza di disposizioni specifiche nel diritto internazionale per quelle aree che esulano dalla giurisdizione nazionale”.
E non stupisce affatto che la stessa Clark si sia battuta per la legalizzazione della cannabis. Sa bene che la criminalità trae profitto da due situazioni: quella con regole inutili e quella dove non ce ne sono affatto.
- https://www.mite.gov.it/sites/default/files/archivio/allegati/nagoya/pubblicazione_il_protocollo_di_nagoya_e_le_risorse_genetiche.pdf
- https://www.imperialecowatch.com/2021/05/18/deep-sea-mining-dal-mare-liberum-allazione-di-greenpeace/
- https://www.un.org/Depts/los/biodiversityworkinggroup/workshop1_abstracts_website.pdf
- https://news.un.org/en/story/2022/03/1113142