Impronte di renna sulla neve
Un passo dopo l’altro, cammino tastando il terreno sotto i miei piedi. Il sole brilla forte su tutto il bianco che mi circonda, trattengo il respiro mentre seguo il tracciato di un ruscello ghiacciato. Davanti a me, ci sono le impronte di una renna piuttosto piccola. Se il ghiaccio ha sostenuto lei, mi dico, perché non dovrebbe reggere me? In realtà la risposta me la do da sola proprio mentre il ghiaccio cede sotto i piedi: la renna cammina a quattro zampe, io no. O, per dirla in altri termini, una renna distribuisce il peso in modo molto più uniforme di quanto facciamo noi bipedi.

Con uno scatto, balzo di lato e riesco a bagnarmi solo i piedi. L’idea è quella di gattonare fino a riva, ma alla fine decido che è più prudente strisciare. Quando raggiungo la terra ferma e mi siedo sotto un albero, sono fradicia di sudore. In realtà, quello che ho attraversato è solo un ruscello di modeste dimensioni, ma l’esperienza mi è bastata a capire che col ghiaccio non si scherza. Soprattutto ora. Sono nella Lapponia finlandese, nei dintorni di Ivalo ed è aprile. La stagione che segna le metamorfosi del ghiaccio ha già aperto le danze e a me viene in mente il 64°esagramma dell’I Ching, Prima del Compimento. Un frammento delicato e intenso che parla della cautela di una vecchia volpe che cammina sul ghiaccio a primavera.
Cosa insegnano le metamorfosi del ghiaccio
È ormai la quarta volta che salgo quassù, nella regione del lago di Inari ma è la prima volta che ci vengo ora, nella stagione delle metamorfosi. Osmo Aikio, che è stato il primo incontro e il primo vero “tramite” tra me e questa terra, mi aveva suggerito di venire in aprile già da tempo. “Troverai un sacco di luce.” mi aveva detto ed è vero. Tra la neve, che è ancora fitta quasi come in inverno, e l’aumento delle ore di luce, ad aprile quassù si cammina con gli occhi stretti a fessura.

Nei momenti che passiamo insieme, Osmo continuerà a essere mediatore e interprete fra me e un alfabeto che non conosco: quello del ghiaccio e della neve in metamorfosi. Con lui, percorrerò chilometri e chilometri in motoslitta sul letto del fiume Ivalo e sulla superficie del lago di Inari, che l’estate scorsa ho attraversato in barca.
“Come fai a sapere che il ghiaccio è ancora sicuro e che non sprofonderemo?” gli chiedo, tirando fuori le mie inquietudini. “Aspetta che faccio una telefonata.” mi risponde lui con tranquillità serafica e chiama un vicino, poi un altro. “Il ghiaccio è ancora sicuro” sentenzia alla fine. “E loro come fanno a saperlo?” obietto io. La domanda sottointesa, in realtà è un’altra: come si fa a sapere fino a quando si può andare sul ghiaccio senza temere di sprofondare? La prima risposta, me la dà Osmo: si seguono le orme tracciate dai nostri simili. Finché ci sono segni di motoslitta o impronte umane, la via è sicura. Nei giorni successivi scoprirò che è vero e questo mi aprirà gli occhi su qualcosa che non sospettavo.
Quassù, dove la natura scopre le sue carte, ci si riscopre animali gregari. Seguire le impronte ha senso. Il coraggio, qui, sta nella maturità del saper seguire il sentiero sicuro, mettendo da parte l’impulso del “fuori pista”. Una filosofia che è agli antipodi rispetto alla retorica del “think outside the box” tanto di moda nei salotti urbani e nel mondo del lavoro. La natura ti rimette al tuo posto e ti fa capire, anche a ceffoni se è necessario, che lo spirito da cowboy in certi luoghi non è di casa. Un monito chiaro e conciso che invita ognuno a sfoderare la propria vitale e salvifica dose di conformismo.

C’è poi una seconda cosa che imparo nel mio andare per ghiacci: in effetti non servono manuali o vademecum per capire se una situazione è sicura o meno. Accanto alla vista, ti vengono in aiuto il tatto e l’udito e ci metti poco – pochissimo – a capire se il rumore della neve sotto i tuoi piedi è affidabile o meno. Certe sensazioni sono semplicemente un’evidenza: inutile cercare di spiegarle. Si può solo ringraziare di avere una sensibilità intuitiva e percettiva che ci permette ancora di dialogare con l’ambiente.
La lingua sami: cento e più nomi per dire “neve”
Chi è nato da queste parti, questa sensibilità ce l’ha nel sangue. Non è strano, quindi, che vada a influenzare anche il linguaggio. È stato forse il best seller di Peter Høeg “Il senso di Smilla per la neve” a sdoganare il fatto che per indicare quella che molto genericamente noi chiamiamo “neve”, gli Inuit groenlandesi hanno un vocabolario molto vasto. Pare però che in realtà siano i Sami a detenere il primato in questo senso. Poco importa, comunque: l’elemento più interessante, sotto sotto, è lo sguardo che c’è dietro il loro linguaggio. E il legame con l’ambiente che quel tipo di sguardo riflette.

Quello che ogni parola esprime non è mai uno sguardo calato dall’alto. Guardiamo alla realtà sempre e solo da un punto di vista parziale e le parole sono la sintesi di questa angolatura. Per i Sami, la principale chiave di lettura la dà l’elemento portante di una società di pastori di renne (anzi, “guardiani”, come specificano sempre). Non stupisce, quindi che molti nomi descrivano le condizioni della neve in relazione alle esigenze di mobilità e di pascolo delle renne. Nella sua ricerca sul tema, Inge Marie Gaup Eira ne parla andando al cuore di diversi termini che rappresentano l’ossatura del linguaggio sami.
Oppas, per esempio, indica il manto di neve vergine, non ancora calpestato dalle renne ma in realtà vuol dire molto di più: è una parola-simbolo che sintetizza un complesso sistema di conoscenze e sottintende la presenza di diversi strati di neve molto soffici e non ghiacciati, formati a loro volta da tipi di neve differenti, ognuno con un nome specifico. Un concetto articolato che però, dal punto di vista di un pastore di renne, si riassume in una sintesi molto pratica: per le renne che cercheranno licheni sotto il manto nevoso, le condizioni di pascolo sono buone.
Il concetto opposto è čiegar, che a sua volta però non indica semplicemente un’area in cui la neve è già stata calpestata. Per un pastore sami, la parola implica diversi messaggi. Indica che ci si trova davanti a un’area che è già stata terreno di pascolo, che nella zona le renne hanno scavato delle buche, che queste buche si sono ghiacciate e che lo strato nevoso è spesso e molto duro. A questi termini, Osmo me ne aggiungerà altri, tipici dei Sami del lago di Inari e ognuno sarà una potente messa a fuoco su un intero universo percettivo: la sintesi di un’attenzione concentrata che trasforma ogni parola in un haiku.

In uubâs trovo il silenzio immacolato della “neve vergine, non ancora calpestata”; čergâmuotâ è una parola lucida e tagliente come la “neve indurita dal vento”; ääinig è impalpabile come “la prima neve, che cade leggera sul terreno nudo” e njuárádâh è “il manto nevoso che può reggere il passo di un piccolo animale”.
Al di là del fascino di ogni espressione e della sua capacità di riassumere un intero codice di consuetudini e raccomandazioni (quel “seguire le tracce” di cui parlavo prima), dietro alle quinte di ogni parola traspare uno sguardo silenzioso e straordinariamente recettivo ed è questo, forse, l’aspetto più potente. Uno sguardo capace di intercettare con precisione millimetrica una vasta gamma di trasformazioni e di farlo non dall’esterno ma dall’interno, riducendo all’osso la distanza tra osservante e osservato. Cosa che, oggi – nel quadro del drammatico stato di alienazione che è alle radici del problema ambientale – assume un valore incommensurabile. Non stupisce quindi, che diversi antropologi sottolineino l’importanza di questo legame con le lingue madri dei popoli indigeni.
Secondo l’eco-antropologa Marie Roué, per esempio:”La terminologia Sami si rivela più olistica e integrata nell’ecologia locale rispetto agli standard internazionali. La complessità della loro lingua viene utilizzata per mettere a fuoco cambiamenti sia significativi che sottili. Questo uso della lingua fornisce anche strumenti per strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, che potrebbero essere di grande utilità per la comunità internazionale. La ricchezza della lingua sami mostra come i popoli indigeni e le comunità locali abbiano sviluppato sofisticati e sfumati sistemi di conoscenza del mondo naturale, che sono incorporati e strettamente connessi alla lingua stessa. La loro conoscenza e l’esperienza di vivere alle frontiere del cambiamento climatico è la chiave per comprendere gli impatti futuri del climate change sull’ambiente.“

Per dirla in altri termini, poco importa che i Sami abbiano più o meno parole rispetto agli Inuit per descrivere la neve. Se ci si allontana da una mentalità da guinness dei primati, si scopre che in realtà il punto è un altro: questione di sguardo, appunto. Uno sguardo non descrittivo ma immersivo e che, in quanto tale, può aiutarci non solo a diagnosticare meglio l’impatto del climate change ma anche (soprattutto) a capire che l’unica soluzione possibile è ritrovare quella capacità di guardare alle cose dall’interno. Ricucendo il cordone ombelicale che connette l’uomo non all’ambiente che lo circonda ma a un mondo di cui fa parte.
“È la natura che decide”
Conosco il lago di Inari in estate, ma è la prima volta che lo percorro muovendomi sul ghiaccio, a dorso di motoslitta. Osmo mi indica dove andare, io guido e intanto penso a quanto la neve cambi la percezione del paesaggio. Strada facendo siamo passati per Onnela (che in finlandese vuol dire “felicità”): un lembo remoto sulla costa dove Osmo ha il suo cottage. In estate, ci si arriva solo in barca perché di strade non ne esistono e si rischia di rimanere impantanati nelle paludi artiche. In motoslitta, invece, Onnela è a un tiro di schioppo da Nellim, il villaggio più vicino.

Non è lì che siamo diretti, però. La nostra meta è Katsomasaari, dove è nata la madre di Osmo: un’isoletta lontana dalla costa, che però grazie alla neve perde il suo status di “insularità”. Mentre percorro gli ultimi chilometri, ripenso a un’intervista in cui Robert Peroni mi ha detto che per gli Inuit il tempo della neve è – diversamente a quanto diremmo noi – “la bella stagione”, proprio perché rendendo tutto facilmente percorribile agevola tanto la caccia quanto le comunicazioni. Qui, in fondo, è lo stesso.
Ci ripenso mentre scendiamo sulle rive di Katsomasaari. Una casetta di legno, a pochi passi l’immancabile sauna e il bosco: un piccolo mondo nel recinto di un’isola. Chiedo a Osmo quali sono i mesi in cui il lago non è percorribile né in barca né in slitta. “Nei mesi di passaggio” mi risponde lui “Maggio, in parte ottobre e novembre“. Lo guardo incuriosita: “E come facevano ai tempi di tua madre, quando vivevano sulle isole?” Osmo sorride e allarga le braccia: “Si rimaneva qui ad aspettare la neve o il disgelo. Le renne c’erano e poi si poteva sempre pescare.” Mi torna in mente quando, qualche estate fa, il mio volo di ritorno dalla Groenlandia era stato annullato per cause di forza maggiore. René, il mio host di Airbnb mi aveva spiegato che a Nuuk questo capita spesso e che in Groenlandia si dice con tranquillo fatalismo che “è la natura a decidere“.

Ci ripenso ora, sulle rive di Katsomaasari. È la natura a decidere: è un’evidenza. Ma soprattutto, ammetterlo fa fare pace con sé stessi. Paradossalmente, è lontano dalle città e dai contesti creati dall’uomo che si riscoprono ritmi più umani. Le battute d’arresto non sono un ostacolo da rimuovere ma fanno parte della vita. Rallentare. Ascoltare. Scoprire che – esattamente come l’alternanza di sistole e diastole – un ritmo più naturale è innanzitutto un ritmo che ci appartiene. La chiave per uno sviluppo che sia davvero sostenibile parte da qui: da un ridimensionamento che va di pari passo con il recupero di una dimensione che non è solo più naturale ma anche più umana.