Laboratoria Berta Cáceres: il tam tam ecologico è globale

La nascita di uno spazio di condivisione e la sua difesa

Negli ultimi mesi, una storia particolare ha attirato l’attenzione di numerosi cittadini romani: la storia della Laboratoria ecologista Berta Cáceres. La Laboratoria è un movimento figlio della Rete Ecosistemica romana (una rete che mette in comunicazione tutti quei collettivi e movimenti che si battono per la tutela dell’ambiente), nato cinque mesi fa in via della Caffarella 13, a pochi metri dal Ministero della Transizione Ecologica, occupando dei locali abbandonati da una decina d’anni e malmessi, rivalutandoli e dando vita a una casa per iniziative ecologiste, uno spazio di condivisione e cura per il territorio.

© lea.berta_caceres – Instagram

La sua è una storia di attriti con le istituzioni, di dissidi, ma anche una storia di solidarietà, cura, amicizia, condivisione, tra individui che si impegnano per ribadire l’importanza di valori che vanno aldilà di quelli economici; valori che, forse, abbiamo dimenticato, ma che oggi acquisiscono una centralità assoluta, di fronte al periodo di emergenza ambientale – con un pianeta stremato dai processi di sovrapproduzione e sfruttamento sconsiderato delle risorse – e sociale – come l’irresponsabilità collettiva con cui rispondiamo ai problemi quotidiani, e la sfiducia totale nei confronti delle istituzioni – che stiamo vivendo. Incuriosito, ho deciso di andare a parlare con i membri di questa comunità, per ascoltare e vivere senza filtri una realtà così interessante e animata.

© lea.berta_caceres – Instagram

Arrivato in Via della Caffarella 13, di fronte ai cancelli vecchi e arrugginiti, ma colorati da striscioni che trasmettono la vitalità della laboratoria, ho notato come l’accoglienza riservata al pubblico strideva con il ritratto che le autorità danno di questo gruppo, sorvegliato giorno e notte come se fossero criminali; perquisito ogni volta che si presenta l’occasione, come se fossero stati colti sul fatto mentre facevano qualcosa di illegale.

La Laboratoria ha, infatti, dovuto fare i conti con continui tentativi di sgombero da parte delle autorità, e malgrado le manifestazioni e le proteste che hanno cercato di trasmettere l’importanza di una realtà pubblica sottratta alla gabbia privatistica come la laboratoria, in uno spazio vitale come quello del parco della Caffarella, le istituzioni si sono mostrate sorde. Il 24 Marzo un primo tentativo di sgombero era andato a buon fine, ma gli attivisti e le attiviste di Berta Cáceres non si sono arresi, e il 7 Maggio hanno rioccupato lo stabile. Parallelamente alla lotta per la cura e il rispetto dell’ambiente, il collettivo ha portato avanti un’ostinata difesa per la conservazione di uno spazio libero di condivisione, centrale per la diffusione di valori e per la pratica di attività ecologiste.

Innanzitutto, la difesa dell’area circostante alla Caffarella è di forte interesse, se si vuole proteggere il parco dall’inquinamento che potrebbero causare edifici e negozi attorno a esso, nonché per evitare una trasformazione dell’area verde, che verrebbe diminuita. Inoltre, la sopravvivenza di una realtà simile è importante per combattere l’idea che l’urbanizzazione debba necessariamente portare alla scomparsa o alla riduzione degli spazi verdi all’interno delle città, dove è il grigio del cemento a coprire di tinta unita il panorama della quotidianità. Gli attivisti e le attiviste di Berta Cáceres sostengono che godere di parchi e aree verdi sia un bisogno fondamentale e che debba essere garantito a tutti, mentre attualmente si sta andando sempre più verso una società distopica in cui vivere la natura sarà privilegio per quei pochi che potranno permettersi di evadere dalle prigioni di calce e malta. La Laboratoria è una vera e propria realtà in divenire, in continua evoluzione e trasformazione, che non solo coltiva valori preziosi e genuini, ma stimola anche lo scambio culturale. Infatti, la sua attività è molto intensa, non limitandosi alla partecipazione a numerose manifestazioni – come quella al Campidoglio contro la costruzione dell’inceneritore per lo smaltimento dei rifiuti –, ma anche creando delle pratiche, degli esperimenti collettivi che mettono in contatto chi partecipa con la Terra e i suoi abitanti.

Contesto Locale, Cambiamento Globale

L’intreccio indissolubile tra tematiche ambientali e sociali è evidente. La Laboratoria si concentra sulla tutela di un contesto locale – traendo ovvia ispirazione dall’esperienza di Berta Cáceres e del popolo indigeno lenca –, nella convinzione che dalle piccole lotte, limitate nelle forze, possano nascere cambiamenti globali.

Berta Caceres | © Tim Russo / Goldman Environmental Prize

Per questo, è necessario soprattutto il sostegno attivo dei cittadini, ai quali si chiede di partecipare alle varie attività, per dimostrare che la voce che chiede con forza il cambiamento è una voce collettiva, che unisce migliaia di bocche, ed è sempre la stessa in tutti i Paesi, nonostante la lontananza geografica. Potrebbe sorprendere il vigore con cui spesso le varie comunità hanno reagito – specialmente negli ultimi anni –, alle richieste di aiuto di questi movimenti, ma questo è il diretto risultato dell’incapacità dei governi a dare rappresentanza, o anche solo a prestare effettivamente ascolto, al sentimento di irrequietezza che attraversa i cittadini. Nei confronti della classe dirigente, le persone non provano altro che sfiducia, guardano con sospetto e diffidenza qualsiasi esponente politico, a prescindere dal colore del partito. La politica ha lasciato un vuoto nei cittadini, che questi movimenti sembrano colmare proprio perché provengono “dal basso”, da chi condivide lo stesso tipo di apatia.

La Laboratoria Berta Cáceres è un esempio: in pochi giorni ha raccolto un numero impressionante di adesioni da parte di cittadini di qualsiasi età, che sono accorsi a dare il loro sostegno, ma anche docenti universitari e esponenti importanti del mondo ambientalista si sono uniti alla causa.

Mirando alla creazione di una fitta rete di solidarietà che metta in comunicazione tutte queste realtà analoghe tra loro, si pongono in contatto anche persone distanti, di quartieri, città, e Paesi diversi, che prendono coscienza del fatto che la battaglia al cambiamento climatico è la stessa ovunque, che lo sfruttamento delle risorse è simile in ogni parte del globo, e persino che a volte anche i responsabili sono gli stessi. Alla fine, più che una rete, si potrebbe quasi parlare di una ragnatela, perché sebbene i filamenti siano numerosi, il minimo tocco in un punto qualsiasi lo si avverte in tutta la struttura, allarmando chi la difende. Non ci si oppone, per esempio, affinché l’inceneritore non venga costruito in una determinata zona, ma ci si oppone per ribadire l’inefficacia (e anzi la dannosità) di una simile soluzione per qualsiasi territorio che ne debba fare le spese; chiedendo un serio intervento delle istituzioni, le quali si mostrano ignare di fronte alle conseguenze che le loro decisioni comporterebbero, o nascondendole sotto un tappeto di tecnicismi che confondono e abbindolano le persone, persuadendole che le soluzioni proposte siano le migliori possibili (per esempio tralasciando l’impatto che l’inceneritore avrebbe sulla raccolta differenziata e altre strutture, che i membri di Berta Cáceres hanno studiato a fondo, scrivendo molto sul loro blog e social a riguardo). Si mette in discussione l’intero iter politico che conduce le istituzioni a fare una scelta (spesso dannosa) piuttosto che un’altra, studiando le documentazioni e mettendo allo scoperto i giochi di interessi che spesso tirano i fili della macchina statale. La Laboratoria e i movimenti affini, puntano alla radice dei problemi, alle cause, non a un apparente rimedio per le conseguenze, che lasci intatti tutti quei meccanismi che hanno creato il problema.

Le forme di sfruttamento e violenza sono simili ovunque, affermano i membri della laboratoria, per questo è importante ripetere esperienze fatte altrove nel mondo, poiché una piccola vittoria in un Paese qualsiasi, rappresenta una vittoria per tutti i movimenti. L’invisibile rete di solidarietà internazionale che anima e attraversa questo tipo di realtà la si può quasi toccare con mano se si pensa alle numerose proteste da parte dei movimenti indigeni dell’America Latina che hanno caratterizzato il panorama ambientalista dell’ultimo secolo, disegnando, forse, anche un orizzonte in cui città e natura non siano più opposte.

Suriname | © lonelyplanetitalia.it
La tutela dell’ambiente nel mondo: dall’America Latina a Roma

Dunque, quando si parla di tematiche ambientaliste, si è purtroppo fatta l’abitudine a considerare inutile o di scarsa efficacia il dialogo con le istituzioni, le quali piuttosto rivestono spesso il ruolo di nemici. L’America Latina è uno degli scenari più interessanti in questo senso. Qui, si può infatti incontrare una biodiversità di flora e fauna che difficilmente possiamo trovare altrove. Basti pensare alle foreste tropicali di Ecuador, Brasile, Suriname e Perù, che coprono più del 50% della superficie di questi Paesi (per essere precisi, il Suriname è il Paese con la maggiore superficie coperta da foreste, arrivando al 90% del territorio); oppure al Paradiso terrestre delle Isole Galapagos, dove si contano 560 specie diverse e dove gli animali convivono pacificamente con gli uomini; ed è impossibile dimenticare l’Amazzonia, il “polmone verde” del nostro pianeta.

Iguana marina | Galapagos

Nonostante la ricchezza naturale di questi territori, veri e propri templi a cielo aperto, i governi di molti Paesi dell’America Latina li hanno spesso profanati, favorendo l’abbattimento di ingenti quantità di alberi a causa di interessi economici con multinazionali, e talvolta anche con i settori del narcotraffico. Se dall’alto sono arrivate le minacce, dal basso si sono sollevati movimenti in difesa della natura. I protagonisti sono stati senza dubbio i popoli indigeni, abitanti nativi di queste terre, che hanno creato un legame viscerale e indissolubile con gli animali, la terra, i fiumi e gli alberi.

Gli indigeni fanno parte di comunità emarginate e sfruttate, che tuttavia non hanno mai smesso di far sentire la propria voce come grido di protesta in difesa di una natura muta, inerme contro le bocche di fuoco della globalizzazione e dell’urbanizzazione. Infatti, è spesso lo sviluppo dei centri urbani e la loro espansione a dare inizio a pericolosi processi di deforestamento. Emblematiche, in tal senso, le proteste degli indios Boliviani contro il governo di Evo Morales nel 2011, il quale aveva avviato la costruzione di un’autostrada lunga più di 300 chilometri per collegare Bolivia e Brasile. Tuttavia, l’autostrada avrebbe tagliato a metà il parco nazionale di Isiboro Secure, dove gli indigeni autoctoni vivevano sostentandosi di caccia e pesca, in un ecosistema messo in serio pericolo. Per difendere la Pachamama (Madre Terra in lingua Quechua), sono state organizzate marce pacifiste e di protesta lunghe 500 chilometri a cui si sono uniti persone da tutto il mondo, avendo un’eco in tutto il pianeta e portando, nel 2012, all’abbandono del progetto.

In ogni caso, il lieto fine non è un esito scontato. Nel 2015, dunque appena 4 anni dopo la questione boliviana, in Honduras, l’attivista Berta Cáceres – da cui la laboratoria romana ha preso ispirazione – riuscì a evitare la costruzione di una diga da parte della compagnia honduregna DESA e la cinese Sinohydro sul Rio Gualcarque, sacro al popolo indigeno lenca, ma fu assassinata da alcuni sicari inviati dalla prima compagnia. Non è l’unico caso in cui chi cerca di tutelare l’ambiente e popolazioni che non hanno voce, finisce per incontrare un triste destino, colpevole di aver provocato una perdita in denaro nelle casse di chi ha di mira solo il proprio benessere economico. Lo scorso 7 Giugno, il giornalista Dom Philips, che si occupava di documentare e difendere i confini della foresta Amazzonica in Brasile, è scomparso.

Dom Philips – Bruno Araújo Pereira

Il suo cadavere è stato ritrovato pochi giorni dopo, assieme a quello dell’antropologo brasiliano Bruno Araújo Pereira con cui collaborava per la stesura di un libro sulle popolazioni indigene che abitavano la foresta. L’assassino era un pescatore-bracconiere, che era stato ripreso dalle vittime mentre svolgeva attività di pesca illegali.

Il problema è che in Brasile questo tipo di attività trova l’appoggio del governo Bolsonaro, che stringe accordi con multinazionali e il cartello del narcotraffico per l’urbanizzazione e industrializzazione dei territori vergini della foresta, vedendo nell’Amazzonia e nelle sue creature nient’altro che una fonte di guadagno; favorendo il diboscamento di aree sempre più grandi, malgrado le continue condanne a livello globale da parte degli altri Paesi che, seppure commettono anch’essi simili crimini nei confronti dell’ambiente, allo stesso tempo si rendono conto di cosa significhi danneggiare la più grande foresta del pianeta, il cui soprannome è – come ricordato – “il polmone verde”. Il fatto che l’aria stia diventando sempre più irrespirabile, come raccontato dal report “Innocenti” dell’Unicef lo scorso Maggio, suona tristemente in sintonia con la situazione che anche il simbolico polmone del pianeta sta attraversando.

Giaguaro in Amazzonia | © EASYVOYAGE

Questa situazione è il drammatico risultato di un pensiero tossico che vede nella coppia città-natura i due poli opposti di una dicotomia tra cui si è chiamati a scegliere, e quasi sempre è il secondo termine ad avere la peggio. Il motivo è che riteniamo i centri urbani come le sorgenti della cultura e del progresso, a differenza della vuotezza della terra vergine, disabitata, pura materia inerte che attende solo che sia l’uomo a darle forma, a plasmarla a sua immagine come il Dio biblico. Eppure non è così. Gli indigeni ce lo hanno dimostrato e continuano tutt’ora a dimostrarlo, nonostante l’incuranza dei governi e delle multinazionali: la natura non è una vuota materia immobile, ma un tessuto elastico che cuce insieme milioni di esseri viventi, generando una cultura silenziosa, differente, che si vive rapportandosi a essa, non solo studiandola. La cultura della natura attraversa soprattutto i corpi, non solo le menti. Se smettessimo di guardarla con il monocolo dell’imprenditore, ci accorgeremmo che la natura possiede una ricchezza inestimabile, che nessun tipo di industria può eguagliare: la vita.

È questo il valore che gli indigeni e i movimenti che si ispirano a loro, come Berta Cáceres a Roma, cercano di trasmettere: la Pachamama è custode della vita, che è il primo bene che riceviamo da essa, e la sua difesa non è solo un atto di gratitudine o un hobby, ma un dovere che abbiamo verso noi stessi, e anche verso gli altri esseri viventi e le generazioni future, che ne farebbero le spese. La terra non ha bisogno di essere messa a frutto da un’industria, per essere resa ricca, basta chinarsi e raccoglierne una manciata per accorgersi di tutti i diversi organismi che vivono in una porzione così piccola per accorgersene.

Non si pretende un romantico e anacronistico ritorno allo stato primitivo – anche perché forse non è nemmeno desiderabile fino in fondo –, ma si chiede di strappare il velo di Maya con cui ci siamo a lungo illusi di essere i latori della cultura e della prosperità, a spese di popoli e esseri viventi che tenevano a un altro tipo di ricchezza. Dunque, un confronto con questo tipo di esperienze, potrebbe aiutarci a delineare un orizzonte in cui non si parli di un’urbanizzazione come progresso, ma di un progresso dell’urbanizzazione, dove città e natura coesistono su uno stesso territorio.

Affinché si possa, un giorno, raggiungere questo obiettivo, la sopravvivenza di queste comunità che lavorano per la tutela di contesti locali è essenziale.

Berta Cáceres oggi: l’ecologismo non ha radici

L’esistenza della Laboratoria ecologista Berta Cáceres a Roma è importante perché dimostra una continuità – con le dovute differenze – tra l’America Latina e l’Europa, malgrado sia da quest’ultima che si è diffusa quella corrente di pensiero che si cerca di decostruire. La ragnatela di solidarietà si estende, quindi, anche al di là dei confini del Nuovo Mondo, dimostrando che la tutela dell’ambiente non ha radici, perché germoglia in ognuno di noi. Infatti, il 5 Luglio le autorità hanno sgomberato per la seconda volta la Laboratoria Berta Cáceres dagli stabili della Caffarella, ma il gruppo ha continuato le sue attività, perché non è tra quattro mura di cemento che si esaurisce il contatto con la natura, che è ovunque. Gli attivisti e le attiviste della Laboratoria sono sempre più numerosi, riunendo i residenti che hanno a cuore il benessere del proprio territorio, diffondendo i loro appelli attraverso i canali social e il loro sito internet.

Foresta del Suriname

 

Nel caso in cui qualcuno fosse intenzionato a informarsi ancora sulle vicende della laboratoria, o volesse recarsi in prima persona per conoscere questa realtà, questi sono i canali attraverso cui ci si può mettere in contatto con loro:

 

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