Nel nome di Petronella: la misteriosa sirena dell’Eldorado finlandese
Dicono che fosse bella, anzi: bellissima. In realtà, però, a guardare le poche foto che si trovano online, si finisce per rimanere delusi. Sylvia Petronella Van der Moer era arrivata a Helsinki dall’Olanda nel 1949 presentandosi come giornalista e aveva girato il Paese lasciando diversi conti scoperti prima di accodarsi a un gruppo di cercatori d’oro e dirigersi a nord di Rovaniemi. Il primo a parlarmi di Petronella è Osmo Aikio, l’amico prezioso che mi ha fatto conoscere la zona di Nellim.

I vecchi – mi racconta Osmo – parlavano sempre di quanto fosse bella Petronella, di quanta luce avesse dentro quella straniera che un giorno, lasciando tutti di sasso, era svanita nel nulla. A Lemmenjoki, passando per Ivalojoki Kultala, Petronella aveva seguito come aiuto cuoco i cercatori d’oro nella loro itineranza ed era diventata una leggenda locale. Poi un giorno le autorità l’avevano raggiunta e le avevano dato il foglio di via: sospetti – pare infondati – di spionaggio, conti non pagati e permesso di soggiorno scaduto. Petronella aveva dovuto fare fagotto e ripartire per Amsterdam.

I minatori, che la adoravano, non si erano però persi d’animo: avevano fatto una colletta offrendosi di pagare i suoi debiti e le avevano scritto supplicandola di tornare da loro. La lettera non aveva ricevuto nessuna risposta. Negli anni successivi, c’è chi andò a cercarla, chi aprì un ristorante chiamandolo col suo nome a Saariselka, un paio di colline vennero battezzate in suo onore, qualcuno compose perfino un musical: di Petronella, però, nessuna traccia.
Solo molti anni dopo, a distanza di più di mezzo secolo, la misteriosa ragazza olandese trovò il modo di rifarsi viva e lo fece secondo il suo stile, cioè dopo essersene andata. “Vorrei essere sepolta nella mia Lapponia” aveva detto un’ormai anziana Petronella alla figlia Solange e a un’artista, Jenny ‘O Connell, che l’aveva trovata negli Stati Uniti. E così fu. Sotto gli occhi lucidi di qualcuno che l’aveva incontrata di persona e in mezzo alla curiosità dei molti che la conoscevano solo per sentito dire, Petronella qualche anno fa è tornata nel suo amato Lemmenjoki dove le sue ceneri sono state affidate al vento e alla terra.

La corsa all’oro in Finlandia, tra ieri e oggi
La storia di Petronella è una meravigliosa metafora che racconta gli impulsi più profondi del Gold Rush finlandese: una stagione epica, anche se meno conosciuta della corsa all’oro nordamericana, iniziata intorno al 1870 con il ritrovamento di alcune pepite nel fiume Ivalo. Ai tempi, la Finlandia – che era un Granducato dipendente dall’impero russo – stava affrontando una gravissima carestia.
Non stupisce, quindi, che per tamponare la situazione la Russia avesse concesso una nuova legge che di fatto liberalizzava la corsa all’oro. Se fino ad allora la gestione e il controllo dei metalli preziosi in territorio finlandese era appannaggio esclusivo dello zar, con il cambio di rotta varato da Alessandro II si apriva la ricerca a qualsiasi “uomo rispettabile”, eccezion fatta per gli ebrei.

Era l’inizio di una grande epopea, che avrebbe avuto il suo centro pulsante nella piccola – ma ai tempi affollatissima – stazione di Ivalojoki Kultala. Osmo mi ci conduce in aprile. Un lungo viaggio in motoslitta sul letto del fiume Ivalo, su cui è iniziato il disgelo, e arriviamo alla stazione abbandonata che oggi è stata messa a disposizione degli escursionisti. Difficile immaginare a distanza di tanto tempo che all’epoca qui fervesse un’attività febbrile di arrivi, partenze, concessione di licenza e vendita delle pepite.
La corsa all’oro finlandese si esaurì abbastanza presto riaccendendosi poi nel Novecento con il ritrovamento di una miniera d’oro a Tankavaara e di un giacimento, più piccolo, a Lemmenkjoki nel 1945. L’epoca di Petronella, appunto. Di quella febbrile epopea, oggi rimangono la miniera di Kittilä (il più grande giacimento d’oro europeo), la storia di Petronella – metafora di quel tendere a un Eldorado che rimane misteriosamente inafferrabile – e una riflessione, attualissima, sullo sfruttamento delle risorse. Nell’Artico, così come altrove, la corsa all’oro non si è arrestata con l’esaurimento dei giacimenti. In un certo senso, la corsa è rimasta la stessa: quello che è cambiato, piuttosto, è l’oro. O per dirla in altri termini, l’oro di oggi non è più l’oro di ieri.

Terre rare: il nuovo oro del Green Shift
Fra le fiabe di Oscar Wilde, ce n’è una – Il giovane re – che trovo molto attuale e che può essere letta come una splendida chiave di lettura di ciò che sta succedendo oggi nel Grande Nord. Nel racconto, un giovane principe amante del lusso sogna le fatiche e le morti che sono costate le perle del suo scettro, i rubini della sua corona e il suo abito da cerimonia intessuto d’oro. Una metafora calzante che potremmo utilizzare come chiave di lettura per dare un peso reale al costo umano e ambientale delle tecnologie necessarie per lo sviluppo delle rinnovabili e del processo di decarbonizzazione in atto.

Il petrolio verde di queste tecnologie è infatti costituito da un gruppo di 17 elementi che vanno sotto il nome di terre rare. Al di là del nome, in realtà, le terre rare non sono poi così rare in natura: è però difficile trovarle allo stato puro e in alte concentrazioni, ricavandone la quantità necessaria a rispondere a una fame energetica in costante incremento. Le terre rare sono fondamentali per le batterie dei nostri smartphone e di qualsiasi dispositivo elettronico, per il cracking petrolifero, per la produzione di catalizzatori industriali e per la fabbricazione dei magneti permanenti utilizzati per turbine eoliche, pannelli solari e auto elettriche. Stiamo parlando, quindi, di elementi con un’altissima valenza strategica, ampiamente monopolizzata – sul piano geopolitico – dalla Cina. Il gigante asiatico, poco prima della pandemia, deteneva il 62,8% delle terre rare estratte a livello mondiale ma con le fasi successive della loro lavorazione (produzione di magneti, ad esempio) arriva di fatto a presidiare una quota di mercato che sfiora l’85-90%. Da cui, la corsa dei diversi Paesi per incrementare l’estrazione di terre rare in aree esterne al monopolio cinese. Ed è qui che entra in gioco l’Artico: un’area vastissima, a bassa densità di popolazione e in cui lo scioglimento dei ghiacci innescato dal riscaldamento climatico sta rendendo disponibili allo sfruttamento minerario territori fino a poco tempo fa inaccessibili.
È in questa chiave che va letta la proposta di Trump di acquistare la Groenlandia. Ed è in questa prospettiva che oggi la Groenlandia si trova ad affrontare alcuni nodi nevralgici per decidere se dare spazio a uno sfruttamento minerario invasivo che le permetterebbe di affrancarsi dalla Danimarca, ma al prezzo di costi ambientali potenzialmente devastanti. Nonostante la resa economica, nonostante vada ad alimentare lo sviluppo dell’energia pulita, il petrolio verde non è infatti né così verde né così pulito.
Di fatto, la difficoltà di trovare terre rare in alte concentrazioni all’interno di un giacimento rende il loro processo estrattivo particolarmente invasivo sul piano dell’impatto ambientale. Una delle tecniche estrattive più utilizzate, per esempio – l’idrometallurgia – prevede in una delle sue fasi l’estrazione dalle rocce attraverso l’uso di acidi. Idem per quanto riguarda la successiva fase di separazione della terra rara dagli altri elementi. Il risultato è l’emissione di sostanze tossiche e radioattive fortemente inquinanti a livello atmosferico, sul piano dell’erosione del terreno e in termini di contaminazione delle falde acquifere.
In questa prospettiva, l’Artico – uno degli angoli più remoti del pianeta – diventa la terra in cui molti nodi vengono palesemente al pettine portando alla ribalta contraddizioni scomode che fanno da spartiacque tra ambientalismo vero e proprio e puro e semplice greenwashing. Ne parlo con Alessandro Belleli: un antropologo italiano esperto in popoli e culture dell’Artico che vive a Tromsø.

L’energia pulita è davvero così pulita? Lapponia norvegese: il lato oscuro delle rinnovabili
“Per i Sami, uno dei problemi principali paradossalmente è proprio la svolta verde dell’economia.” spiega Alessandro Belleli, osservatore attento della complessa transizione dei popoli nativi verso la modernità. “Da parte nostra, tendiamo a dare per scontato che la transizione energetica sia qualcosa di positivo ma il punto di vista dei Sami è differente. E i rischi ci sono: parlo di rischi concreti, legati all’estrazione delle terre rare e di altre risorse minerarie fondamentali per la green economy. A Repparfjord, per esempio, ha rischiato di sollevarsi una rivolta simile a quella esplosa ad Alta negli anni Settanta, quando la popolazione locale si oppose alla costruzione di una centrale idroelettrica. In questo caso gli attivisti – tra cui molti giovanissimi – hanno unito le forze per opporsi alla costruzione di un’enorme miniera di rame che avrebbe scaricato tonnellate di scarti nelle acque del fiordo. Una battaglia ecologista, quindi, ma con una forte componente identitaria. La cultura sami più conosciuta è quella di terra, legata alla pastorizia, che però non è l’unica: esiste anche una cultura sami delle coste, basata sulla pesca. E il Repparfjord è un fiordo legato alla pesca tradizionale dei salmoni.”

Quello proposto da Belleli è un esempio perfetto, che porta in luce alcune contraddizioni nevralgiche del Green Shift. In questo caso, infatti, stiamo parlando di una compagnia – la Nussir ASA – che attualmente sta lavorando alla costruzione della prima miniera al mondo zero emissioni, alimentata da energia idroelettrica e senza emissione di gas di scarico. Obiettivo: incrementare l’estrazione di rame, fondamentale per la svolta green, con miniere a basso impatto energetico. Peccato però, che – per quanto pulita – l’estrazione implichi una consistente produzione di scarti: 30 milioni di tonnellate, secondo gli ambientalisti che sottolineano come lo scarico degli scarti minerari in mare – consentito solo da quattro Paesi al mondo, fra cui la Norvegia – rappresenti una soluzione a buon mercato ma al prezzo di un fortissimo impatto ambientale. Marino, in primis, ma anche di terra per le conseguenze che lo sfruttamento minerario implica sull’itineranza delle renne.

La transizione energetica norvegese è un fenomeno complesso, ancora più interessante perché convive con le cifre astronomiche dell’industria degli idrocarburi che ancora oggi rappresentano il 14% del PIL norvegese e il 40% delle esportazioni statali, alimentando il fondo sovrano più grande al mondo. La Norvegia è ancora il principale produttore di petrolio in Europa e al tempo stesso è un Paese – il primo ad aver ratificato gli Accordi sul clima di Parigi – in cui, già due anni fa, il 70% delle auto vendute erano elettriche. Una doppia realtà, insomma.
Chiedo a Belleli come si pongono le popolazioni native rispetto all’industria estrattiva. Industria, peraltro, in cui ENI gioca un ruolo di primo piano. “Ho intervistato di recente il sindaco di Hammerfest e i lavoratori della piattaforma ENI Goliat, la più grande piattaforma estrattiva al mondo e la più a Nord. ENI è il principale investitore nel mare di Barents, dove ha comprato il 75% delle quote estrattive. Parliamo quindi di una presenza di peso. Rispetto a questo gigantesco mercato, i Sami si pongono in modo duplice: lo vedono come un rischio ma anche come un’opportunità. L’estrazione di petrolio e di gas normalmente è tassata al 60% ma porta consistenti entrate economiche: i proventi, infatti, non vanno solo allo Stato centrale ma anche alle comunità locali. Per questo, tendenzialmente viene vista in modo più favorevole rispetto a una transizione verso le rinnovabili che rischia di portare via enormi fette di territorio.”

Per via dello sfruttamento minerario immagino. Belleli conferma ma allarga il tiro: “Le miniere svolgono un ruolo di primo piano, certo, con ulteriori complicanze anche per l’impatto ecologico su fiumi e bacini di pesca. Ma il problema non sono solo le miniere: ci sono anche rischi non da poco legati all’eolico. Parchi enormi finanziati da diversi fondi pensionistici tedeschi (ma non solo) che vanno a occupare sterminate zone di pascolo delle renne. Noi vediamo spesso l’Artico come una landa disabitata ma in realtà non lo è affatto. Le zone in cui si vanno a impiantare i parchi eolici, non sono terra di nessuno: sono terre abitate e legate a filo doppio, sul piano identitario, alla cultura delle popolazioni native.”