Ogni anno centinaia gli attivisti ambientali indigeni che subiscono violenze, tra quelli segnalati e quelli invisibili dei paesi dove la stampa è imbavagliata. Lo indica Global Witness, l’organizzazione per i diritti umani, nel suo rapporto “Last line of defence” (https://www.globalwitness.org/en/campaigns/environmental-activists/last-line-defence/).

Nel 2020 tre omicidi su quattro sono avvenuti in America del Sud. La Colombia lo scenario più frequente dei delitti, seguita da Messico e Brasile. Un terzo delle vittime dei trigger-man (gli “uomini-grilletto”, esecutori materiali, quasi mai responsabili finali) erano indigeni, e fra questi almeno una su dieci era una donna, che difendeva l’azienda agricola familiare contro l’avanzare delle ruspe delle grandi compagnie. Ma il rapporto segnala anche che le donne indigene sono spesso vessate da violenza sessuale e intimidazioni, o che vengono sorvegliate e registrate come terroriste. Il loro delitto? Combattere, per salvaguardare la terra e la casa contro gli interventi di sfruttamento irresponsabile del pianeta: deforestazione, estrazione mineraria ed esplorazione petrolifera anche nelle zone protette, inquinamento del suolo e dell’aria. Disastri ambientali che avvengono continuamente sotto i loro occhi, nelle terre che coltivano, nei boschi dove raccolgono frutti, nei fiumi dove riempiono le brocche.
Eppure, sono proprio le donne delle comunità indigene le principali attrici della transizione ecologica a livello globale, con il loro contributo quotidiano alla tutela della biodiversità. E sono anche le prime vittime del degrado ambientale, “…perché sono quelle che camminano per ore in cerca di acqua, che raccolgono la legna, che cercano il cibo per la famiglia.” ha dichiarato l’ambientalista keniota Wangari Maathai, premio Nobel per la pace 2004.

Sono donne che vivono in circa 90 paesi, in un terzo delle aree quasi incontaminate del pianeta: territori magnifici, dove si conserva l’80% della diversità biologica mondiale, un patrimonio di specie vegetali e animali che condiziona l’equilibrio della vita sulla Terra. E dalle ultime stime sembra che un milione di specie siano a rischio di estinzione a causa delle attività umane. La routine quotidiana di un villaggio indigeno è senza dubbio eco sostenibile: emissioni di gas serra ridotte al minimo, riciclo di materiali, attività agricole e di allevamento non intensive, alimentazione a km zero. Tuttavia, sono i popoli indigeni i primi a risentire dell’emergenza climatica, e la loro sopravvivenza è direttamente collegata alla biodiversità. Per loro è il meteo l’ago della bilancia alimentare: l’agricoltura dipende dalle piogge, l’allevamento dalla presenza di pascoli fertili e abbeveratoi sempre colmi. Nel frattempo tutta la spazzatura scomoda del pianeta viene dirottata nelle discariche abusive accanto alle loro case. Complici del degrado i governi locali, che concedono con facilità le concessioni di sfruttamento delle risorse alle compagnie internazionali. Aziende che nella loro campagna di comunicazione non mancano mai di citare con disinvoltura la parola “sostenibilità”.

Sacerdotesse della biodiversità
Le donne indigene sono le streghe del medioevo occidentale: depositarie di conoscenze sulle piante e sui rimedi naturali per guarire le malattie, padrone del sapere, vengono spesso osteggiate e segregate da una società globalizzante che stenta a riconoscere l’importanza vitale del loro ruolo.
Da sempre vivono e operano circondate da una natura vergine a cui si rapportano in modo intimo e diretto: dedite alla raccolta e lavorazione dei frutti della terra, conoscono le tecniche per ottenere il massimo rendimento senza impoverirla.

Sin da bambine imparano a riconoscere piante di ogni tipo per utilizzarle come cibo, fabbricazione di oggetti, combustibile, e medicine: la foresta è una farmacia a cielo aperto, fornendo la base dell’assistenza sanitaria di questi popoli. E nei boschi e nelle montagne delle aree più remote raccolgono radici, bacche ed altre piante spontanee che possono tamponare l’emergenza fame in caso di periodi di siccità, guerre o calamità naturali.
Consapevoli della complicità fra femminilità e ciclo lunare, le donne indigene, esperte botaniche, insegnano (come i nostri contadini fino al secolo scorso) a ritmare le attività agricole secondo le fasi del satellite d’argento. Quello che trasmettono non è solo conoscenza, ma anche la cultura del rispetto per una natura che regala opportunità di autosufficienza.

E questo intenso legame con la terra rischia di indebolirsi a causa della occidentalizzazione che cancella le tradizioni e il multilinguismo: le donne indigene sono anche insegnanti senza diploma di idiomi ed usanze che comunicano con immediatezza il valore della biodiversità.
Sono anche mediatrici familiari e sociali: coinvolgendo i più giovani nella ricerca del cibo, tengono unito il gruppo nel perseguimento del benessere comune.
Quella delle donne indigene ambientaliste è una duplice sfida: lavorano per proteggere il loro ecosistema, ma devono anche faticare ogni giorno per farsi coinvolgere dai governi nelle discussioni sulla protezione della terra e l’accesso alle risorse naturali. Materie per le quali potrebbero ricevere una laurea ad honorem.

Anche secondo Elizabeth Maruma Mrema , la prima donna africana nominata segretaria esecutiva della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica (https://www.cbd.int): “Senza la piena partecipazione, coinvolgimento ed impegno delle donne indigene, gli sforzi per un futuro sostenibile non potranno mai essere pienamente raggiunti.” Avvocata di origini tanzanesi, ricorda che per gli indigeni la terra non soddisfa semplicemente i bisogni immanenti: nata e cresciuta sulle altezze del Kilimangiaro, ricorda perfettamente il benessere fisico e mentale trasmesso dalla natura inviolata, una sensazione che chi vive in città tende a dimenticare o non ha mai conosciuto.

Condividendo la stessa idea, molte donne indigene sono diventate PR della natura, con la formula del Community-Based Tourism, in cui il viaggiatore ha l’opportunità di conoscere l’agricoltura autoctona, la quotidianità oltre il folclore, la battaglia per i diritti che ogni comunità porta avanti, supportando l’economia locale all’insegna della sostenibilità ambientale. Per i turisti è anche questo un modo per riconoscere che la perdita della biodiversità è un’emergenza che riguarda gli indigeni ma anche noi “figli del benessere”: le varietà di esseri viventi sono le difese immunitarie del pianeta.

Ambientaliste in alta quota: l’esperienza delle donne andine
Sono trascorsi 28 anni dall’istituzione della Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni, e in un momento storico in cui l’emergenza ambientale è all’ordine del giorno le donne acquistano una consapevolezza sempre maggiore del loro ruolo: da ogni punto cardinale fanno rete, si incontrano ai raduni e sui social network.
Ho interpellato Viviana Figueroa, avvocata e membro dell’International Indigenous Forum on Biodiversity (https://iifb-indigenous.org/) non solo perché esperta dei problemi e dei diritti dei popoli indigeni, ma perché lei stessa fa parte di una comunità locale, gli Omaguaca-Kolla, che abitano nella provincia di Jujuy, sulle Ande argentine.

“Proteggere la natura per noi non è una novità: è parte dell’identità del nostro popolo, e si trasmette da sempre di generazione in generazione. E le donne hanno un ruolo specifico nella comunità, che è di tipo matriarcale, perché sono loro che tramandano tutte le conoscenze ai figli.” Attraverso favole e leggende spiegano l’origine degli elementi e il legame simbiotico fra umanità e natura, e insegnano l’amore rispettoso per Pachamama (Madre Terra), che proprio come una genitrice deve essere onorata e ringraziata ogni giorno per i suoi doni amorevoli. In agosto si celebra un rituale di omaggio alla natura e di auspicio di fecondità: cibo e pietanze vengono depositati in una grande buca che viene poi ricoperta, e su cui i partecipanti lasciano una pietra fino a formare una suggestiva montagna di sassi.

“Abbiamo dovuto affrontare i cambiamenti causati dalla globalizzazione, perdendo parte delle nostre tradizioni, linguaggi, e biodiversità, ma le donne continuano a giocare un ruolo fondamentale nella nostra comunità contadina: conoscono tutte le piante, selezionano e conservano i semi di tutte le colture. Ad esempio, se in un supermercato troviamo una sola varietà di patata, nelle nostre fattorie se ne coltivano sei, ed in passato ancora di più. Una diversità genetica che conserviamo non solo per noi, ma per l’umanità: da noi vengono studiosi da tutto il mondo, con cui volentieri condividiamo il nostro sapere.”

Anche le ragazze, che rispetto alle nonne e madri hanno l’opportunità di frequentare la scuola e università, spesso decidono dopo gli studi di restare in seno alla comunità indigena; come ha fatto Viviana Figueroa, nell’intento di trasmettere alle due figlie la conoscenza e le pratiche di cura della terra, e nello stesso tempo tutelare il suo popolo da espropri e crimini ambientali, forte della sua laurea in diritto agricolo e minerario. E Figueroa ci tiene a sottolineare che il lavoro del network femminile vuole essere complementare ad un impegno globale: “Non siamo femministe, vogliamo lavorare insieme, uomini e donne, per ottenere riconoscimento del diritto di gestire la nostra terra, e supporto nella tutela della biodiversità e delle nostre tradizioni, per tutta l’umanità e per le generazioni future.

Il problema è che siamo ancora molto discriminate: i governi spesso ci escludono dalle decisioni, e non attuano politiche di tutela delle nostre culture. Mentre nelle nostre comunità le donne, specialmente le più anziane, sono quelle che compiono le scelte importanti.”
Tutti hanno diritto ad un ambiente sano. Lo ha dichiarato l’ONU. E ha commentato Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP): “Questa risoluzione invia il messaggio che nessuno può portarci via la natura, l’aria e l’acqua pulite o un clima stabile, almeno, non senza combattere”. Ma combattere, come? Cominciando a comprendere che “indigeni” siamo ormai tutti.
Interessante e bell’ articolo , anche se purtroppo dedicato ad un tema drammatico,
grazie per la descrizione accurata e per le bellissime foto.
Grazie Nadia. Sì, c’è tanto dramma. Ma è sempre più visibile il peso che queste donne hanno sulla salute della terra, quella locale e quella planetaria.
Sinceramente interesante e condivisibile.
Anche se, “ahilui”, un uomo, desidero comunque fare un accenno all’Uomo del buco (Índio do Buraco), morto nel luglio scorso in Amazzonia, per anni ultimo della sua tribù eliminata a metà anni ’90 dai piantatori brasiliani. Era osservato da lontano da antropologi; l’egregio si è spostato molte volte vivendo di caccia e raccolta, e più raramente piantando manioca e mais, se riteneva di essere vagamente al sicuro per un lasso di tempo ragionevole. E’ stato trovato morto e si era preparato un corredo funerario minimale.
Grazie Franco, la storia di quest’uomo, sconosciuta a molti, va ricordata. Ci tengo a sottolineare che nelle comunità indigene non c’è quella disparità di genere che vive l’Occidente, e tutti combattono per il bene collettivo, per la terra.