Espressività di un orso
Alaska, la vita con gli orsi continua.
La pioggia è incessante, sono anni che non si assiste ad un’estate tanto umida e piovosa. La luce non è delle migliori, ma penso solo a osservare e fotografare orsi esaminandone movenze e gesti. Quattro orsi gironzolano lungo la spiaggia, mai così tanti insieme. Sono giovani esemplari intenti a giocare.

In anni di appostamenti e osservazioni mi era capitato di incontrare una mamma orsa con due cuccioli, due esemplari giovani, numerosi maschi solitari ma la novità di quest’avventura a Shelter Creek nel Lake Clark National Park è quella di osservare quattro orsi insieme che comunicano tra loro, giocano e lottano con movenze quasi umane.
L’esposizione, la luce, la regolazione del diaframma della macchina fotografica, qualsiasi valore debba tener conto, finisce nel dimenticatoio da quanta è l’emozione nell’assistere a questo inaspettato raduno di plantigradi.
Non me ne vogliano i fotografi, ma ogni luce è adatta a cogliere immagiini, mettendo in evidenza il muso, lo sguardo, il colore del pelo, il profilo, le movenze. È la fotografia che deve andare incontro agli orsi e ogni tipo di luce ha un suo segreto. La gestualità di questi animali ha sempre un che di particolare e imprevisto. Nel riprendere caprioli e stambecchi mi aspetto sempre determinate movenze, ma con gli orsi è tutto molto imprevedibile. Inoltre sono notevoli le differenze morfologiche tra diversi esemplari.
Mentre continuo le esplorazioni sotto la pioggia, si delineano altri due giovani esemplari, uno vicino all’altro. Non capisco cosa stiano scrutando, c’è un limite di comprensione tra gli orsi e la sottoscritta, ed entrare nella mente di un orso non è impresa facile. È la mente dell’homo sapiens che tende a dare una spiegazione a tutto. Ma qui ai confini del mondo il privilegio è proprio quello di osservare senza pensare, una sorta di limbo della mente che porta ad uno stato di grande semplicità. Un orso dall’altra parte del torrente sembra farmi la linguaccia. In realtà la lingua serve principalmente a inumidire il naso e a renderlo ancora più ricettivo nell’avvertire gli odori, una pratica usata anche dagli ungulati.

Il tempo continua ad essere inclemente, anche poche gocce possono creare un malfunzionamento se non addirittura compromettere l’attrezzatura fotografica. Inoltre il freddo scarica velocemente le batterie e per quanti power bank possa aver di scorta devo calibrare ogni secondo. Sono attrezzata con apposite coperture impermeabili per macchine fotografiche, ma con questa pioggia incessante occorre utilizzare anche sacchetti di plastica supplementari. I controluce diventano ormai la regola, non è che gli orsi possano uscire solo nella famosa gold hour, tanto più che il sole è diventato la principale incognita del viaggio.

La danza della pioggia
Il piccolo campo tendato è costituito solo da tre tende, dormo nella più spaziosa dove è collocata anche una piccola stufa alimentata con la legna scaricata dall’idrovolante. Il vento è impetuoso e gli orsi non amano le giornate ventose, le raffiche portano lontano gli odori e confondono il loro odorato acuto , il senso più sviluppato. Rimango accucciata accanto al fuoco; dopo numerosi incontri con gli orsi e aver assistito all’allattamento di mamma orsa occorre una sosta necessaria per metabolizzare quelle immagini. Il ticchettio insistente della pioggia si confonde con l’allegro scoppiettio del fuoco. Le regole della wilderness sono anche queste, rimanere ore a scaldarsi ed asciugarsi davanti al fuoco. Le nuvole continuano a danzare con le montagne. Non bisogna per forza scorribandare sul territorio di continuo, anche star fermi in tenda nel cuore dell’Alaska a Shekter Creek ha un suo perchè.

Il vantaggio della pioggia porta comunque alla scomparsa dei noiosi mosquito. Ciò nonostante il valore ecologico dei mosquito è incalcolabile, se non esistessero, non potrebbe vivere la maggior parte delle specie di uccelli in Alaska. E a proposito di rumori e ronzii, ogni foresta ha un suo battito, in Canada era il picchio rosso con il suo tambureggiare ad animare i boschi, ma è lo squittio dello scoiattolo a vivacizzare la foresta di Shekter Creek. Mi affaccio fuori dalla tenda e lo vedo sul ramo di un abete vicino come se stesse spiando.
Torno in tenda, il calore della stufa oltre ad asciugarmi mi tiene compagnia.
La pioggia continua per ore finché mi balza in testa un’idea ed improvviso una danza della pioggia. Se le popolazioni degli Indiani d’America usavano danzare per favorire o scongiurare eventi naturali, perché non farlo anch’io. Senza avere idea di quali movenze assumere, esco dalla tenda e inizio una danza cantando goffamente “Ohoooo, Ohoooooo”. Un canto non per il sole bensì un ringraziamento alla pioggia.

Alcune tribù del nord America praticavano la danza della pioggia col duplice intento di favorirne la caduta e acquisire una sorta di purificazione della terra dagli spiriti maligni. Non ho alcuna maschera o vestito tribale, indosso scarponi pesanti, pantaloni da trekking e un pile azzurro, ma questa danza sembra appartenermi come se in un tempo lontano avessi fatto parte di una qualche tribù indiana.
I miei tre compagni del campo tendato mi squadrano un po’ straniti, poi si uniscono al rituale. La natura può suscitare gli aspetti più nascosti e perché no divertenti. Venti minuti di danze e pian piano cessa di piovere. Sembrerà strano, ma è veramente ciò che è accaduto, anche un timido raggio di sole ora illumina l’habitat degli orsi. La danza di ringraziamento alla pioggia ha funzionato. Il vento è calato e alcuni orsi camminano lungo il ruscello, sembra che qualche salmone sia arrivato dalla foce. Forse non tutti si sono persi lungo il difficoltoso rientro dal mare al fiume originario dove sono nati.

Per meglio avvistare i pochi salmoni nel torrente un orso si apposta addirittura in cima ad una sorta di scoglio in mezzo all’acqua, un altro all’estremità di un tronco: mi fanno sorridere.
Poi l’orso sullo scoglio si tuffa in acqua e finalmente il salmone è accalappiato. Nel frattempo gli stessi quattro orsi che girovagavano lungo la spiaggia nei giorni precedenti si radunano nel torrente davanti alla mia tenda. Ancora una volta non mi sembra vero. Fanno una certa impressione tanti orsi così vicini soprattutto perché mi trovo in netta disparità numerica in un territorio dove ci sono più orsi che umani, ma quello che stava per accadere ha un valore aggiunto in questo mondo incontaminato.

Circondata da orsi
La guida deve sistemare alcune cose al piccolo campo tendato allestito nel cuore del Lake Clark National Park. Nelle esperienze passate mi era capitato di trovarmi sola con due orsi vicini, ma stavo navigando lungo un fiordo su un kayak, un’imbarcazione che è pur sempre un confine fisico con gli orsi. Anche alle Isole Svalbard, quando dovevo allontanarmi dalla tenda per costruirmi una sorta di toilette nel ghiaccio portavo sempre con me un piccolo sparapetardi che poteva fungere da deterrente per scoraggiare l’eventuale avvicinamento di orsi polari. Mai mi ero di trovata da sola senza spray al pepe, unica arma consentita in questi territori, e per di più circondata da ben cinque orsi di notevoli dimensioni. “Puoi andare da sola Chiara, ti tengo d’occhio da lontano” mi rassicura la guida in inglese con tutta naturalezza. Mi sto addentrando in un territorio per me sconosciuto, l’assenza di qualsiasi cosa o persona tra me e gli orsi. Ammetto che essere accompagnata da una guida provvista di spray al pepe mi ha sempre dato sicurezza, per quanta confidenza abbia acquisito con gli orsi. L’unica arma che possiedo, se così si può dire, è la connessione e l’armonia che negli anni mi sono costruita nell’osservare la natura e gli orsi.
Mi allontano quindi dalla comfort zone, non posso non proseguire. Avanzo lentamente verso il torrente in un’area ampia come un campo da calcio, da una parte tre orsi che mi osservano, dall’altra altri due. Non ci sono più confini tra gli orsi e la sottoscritta. Pietrificata tra contemplazione e paura. La guida mi scatta una foto e più tardi nel mostrarmela scherzosamente aggiungerà “Meditation with the bear”. Guardando la foto mi sento piccola e privilegiata. Non oso scattare immagini per quanto disponga di due macchine fotografiche. Osservo gli orsi intorno a me e questo mi basta. Immobile, non mi muovo, in silenzio con loro, rispetto loro e loro rispettano e accettano la mia presenza. La paura non mi abbandona mai.

Stare qualche giorno in mezzo agli orsi è un’esperienza indimenticabile che ti accompagna sempre. Se all’inizio degli studi non capivo perché fossi attratta dagli orsi e dalla natura, ora ho la consapevolezza di quanto possa essere appagante trascorrere del tempo con loro. Non più condizionata da istinti primordiali, ma da una voglia irrefrenabile di stare in mezzo agli orsi e alla natura.
Gli orsi e il diabete
L’unicità degli orsi è data anche dal meccanismo del letargo. È uscito di recente su Nature un articolo che descrive lo studio condotto da alcuni scienziati i quali hanno scoperto otto proteine chiave, presenti anche nell’uomo, che consentono ai grizzly di non ammalarsi di diabete.
Se gli esseri umani mangiassero decine di migliaia di calorie al giorno, ingrassassero a dismisura e facessero poco movimento per mesi seguendo il comportamento degli orsi, le conseguenze per la salute sarebbero catastrofiche. Eppure gli orsi non sviluppano il diabete. L’ormone dell’insulina, presente nella maggior parte dei mammiferi, serve a regolare i livelli di glucosio nel sangue. Se la quantità di zuccheri che entra in circolo è elevata, le cellule col tempo smettono di reagire, diventando resistenti all’insulina.
Questa è una delle principali cause del diabete di tipo 2, una malattia che può provocare attacchi di cuore, ictus e cecità. Circa un americano su 10, ovvero più o meno 37 milioni di persone, sono affette da diabete di tipo 2. Diversamente dagli umani, gli orsi riescono misteriosamente a tenere sotto controllo la capacità di resistenza all’insulina, attivando e disattivando la produzione di questo ormone a seconda del bisogno.

Per scoprire come funziona questo meccanismo, i ricercatori hanno prelevato del siero dal sangue di 6 orsi grizzly (di età compresa tra i 5 e i 13 anni) tenuti in cattività presso il WSU Bear Center, un centro di ricerca sito a Pullman, nello Stato di Washington. Hanno inoltre prelevato anche campioni di tessuto adiposo, utilizzati per far crescere colture cellulari in laboratorio. “Questo ci permette di fare test che altrimenti non potremmo eseguire sugli orsi adulti”, afferma il coautore dello studio, Blair Perry, ricercatore post-dottorato presso la Washington State University.
L’esperimento ha aiutato il team a individuare il segreto che permette agli orsi di controllare la produzione di insulina: otto proteine chiave che sembrano avere un ruolo unico nella biologia degli orsi e che agiscono in modo indipendente o congiuntamente per regolare i livelli di questo ormone durante il letargo. La maggior parte dei geni umani corrisponde a quella degli orsi, quindi comprendere il ruolo di queste otto proteine potrebbe essere molto utile agli scienziati per conoscere meglio la resistenza all’insulina che si verifica nell’uomo. “L’identificazione di queste otto proteine costituisce un passo importante”, afferma il ricercatore, così come “individuare i meccanismi che vengono attivati e disattivati” quando gli orsi cambiano la propria resistenza all’insulina.
Ancora una volta è l’orso a stupire non solo con la sua bellezza, la sua imponenza, il suo comportamento, ma anche con i suoi perfetti meccanismi fisiologici.