Cop27 – teniamoci i fossili e paghiamo i danni

La Cop27 di Sharm el Sheikh è partita a cavallo di uno dei G20 più tesi della storia e verrà ricordata come tra le più deludenti e criticate. Si chiude con un piccolo grande successo di giustizia, ma con un nulla di fatto per contrastare la grave emergenza.

Peace Road | Sharm el Sheikh | © Thomas Hartwell | AP
Deboli premesse

Innanzitutto c’è la rinuncia di Greta Thunberg, fondatrice dei Fridays for Future, che lamenta lo scarso spazio lasciato alla società civile in questa edizione. Lo dichiara a Londra, durante la presentazione del suo nuovo libro, e bolla la conferenza come una mera opportunità per i politici di mettersi in mostra all’insegna del greenwashing. Precedentemente in un twitt aveva espresso la sua solidarietà ai prigionieri di coscienza detenuti in Egitto. Molti si sono posti domande sulla scelta del paese ospitante, dove diritti umani e libertà di stampa non sono di casa. Quest’anno era il turno dell’Africa, ma la candidatura di Sharm el Sheikh, sede sicuramente ben attrezzata e navigata per questo tipo di eventi, sembra essere il frutto di un intenso lavoro di lobby da parte degli Emirati Arabi Uniti, che sono i più importanti investitori e partner commerciali in Egitto. Questo spiegherebbe anche la massiccia presenza di delegati provenienti da comparti industriali energivori, inquinanti e strettamente legati ai fossili. Tra loro anche oligarchi russi, CEO di compagnie metallurgiche e petrolifere, persone fisiche e giuridiche soggette a sanzioni in UE e UK.

Il luogo

Una Sharm el Sheikh sempre meno votata al mare, quel mare che ha costruito la sua fortuna, e sempre più parco divertimenti, una Sharm el Sheikh che di notte si riempie di luminarie colorate per accogliere delegati che discuteranno di clima. Anche la scelta di confinare le proteste e le manifestazioni in un’area designata nel deserto, dove i reporter potranno fotografarli come in uno zooparco, fa discutere. La disposizione, a dir poco bizzarra, viene vanificata dalla designazione dell’intera area della conferenza a zona blu, ovvero zona extraterritoriale dove valgono le leggi e le garanzie delle Nazioni Unite. Ai manifestanti non è stato concesso di sfilare per le strade ma, di dimostrare il dissenso tramite slogan e cartelli davanti ai delegati. La presenza della polizia intorno al perimetro è ostentatamente massiccia. Dulcis in fundo, la app fornita dal governo ai delegati, si scopre, è un’app di sorveglianza.

Un sogno evaporato

La febbre del pianeta sta salendo in fetta e supererà presto gli 1,5°C fissati a Parigi. Riuscire a mantenere quel limite di tolleranza per la temperatura sembra sempre più difficile. Per questo, dopo l’amarezza del sabotaggio all’ultimo minuto della moratoria sui fossili alla Cop26, in tanti avevano sperato di riprendere i lavori dal punto in cui ci si era fermati per arrivare finalmente ad una stretta decisa ai combustibili fossili. L’accordo era nelle priorità sin dall’inizio ma non si è giunti a nulla, nonostante la posizione di questa amministrazione americana, molto più aperta al cambiamento, e della maggior parte dei paesi europei.

“Non possiamo più invocare l’ignoranza sulle conseguenze delle nostre azioni, o continuare a ripetere i nostri errori. Tutti dobbiamo continuare ad accelerare i progressi durante questo decennio decisivo.”

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Manifestanti alla COP27 | © Peter Dejong Associated Press | LaPresse

Con queste parole Joe Biden sembra abbia voluto mettere in chiaro che non c’è più posto per gli scettici del clima nel mondo civile e nella comunità internazionale. E che non c’è più tempo. Tra i fattori che hanno giocato contro la moratoria invocata da attivisti e scienziati c’era proprio la massiccia presenza di rappresentanti del comparto dei fossili i quali, secondo quanto hanno riportato alcuni osservatori al The Guardian, erano lì unicamente per fare lobby e ottenere consensi. Ha anche influito la chimera del sequestro e della cattura del carbonio, ovvero le tecnologie che consentono di prelevare il carbonio dall’atmosfera e spedirlo nelle viscere profonde della Terra, un campo di ricerca tra i più coccolati (e finanziati) dalle società petrolifere. A riguardo l’Arabia Saudita ha messo sul tavolo, a sorpresa, un altro dei suoi progetti faraonici. Dopo aver pianificato la piantumazione di 600 milioni di alberi e aver costruito il più grande impianto di produzione idrogeno verde del mondo, il Regno ha intenzione di costruire un altro impianto che consentirà di catturare dall’atmosfera fino a 44 milioni di tonnellate di CO₂ entro il 2035. Pur comprendendo la buona volontà e le ragioni dell’Arabia Saudita, che si affida essenzialmente al petrolio per la sua economia, il progetto per la cattura del carbonio è stato definito irrealizzabile da esperti ed osservatori, una perdita inutile di denaro secondo GreenPeace, e un tentativo di ritardare il processo di transizione verso la Green Economy da altri osservatori, che accusano l’Arabia Saudita di ritardare i lavori e deviare l’attenzione con espedienti. Il CSC, cattura e sequestro del carbonio è probabilmente il più palese dei tentativi di greenwashing. Si tratta di una tecnologia dai costi proibitivi ancora poco esplorata e testata, ne abbiamo parlato qui.

L’attivista nativo americano Jacob Johns | © Ira Gardner

Non è un caso che lo stesso Biden sia stato interrotto durante il discorso da alcuni attivisti Hopi, nativi americani dell’Arizona, che hanno alzato uno striscione con la scritta ‘People vs. Fuels’ prima di essere allontanati. Uno degli attivisti, Jacob Johns, cui è stato revocato il permesso d’accesso alla conferenza, ha dichiarato ad ABC News che intendeva protestare contro il nuovo programma degli Stati Uniti che facilita le emissioni di carbon credits da parte di aziende inquinanti a fronte di progetti di rimozione del carbonio

Il problema alimentare

Il sistema alimentare globale è quello messo più a dura prova dal cambiamento climatico, ma durante i lavori è emerso che dalla produzione di fertilizzanti, di acqua e mangimi, alla sottrazione di suolo alla foreste fino alle emissioni di gas serra da parte del bestiame l’intero sistema è responsabile del 30% delle emissioni. Come se non bastasse il 90% dei 540 miliardi di dollari di sussidi globali al comparto alimentare va a sostenere attività dannose per il pianeta. Proprio da questo settore, però, sono arrivate alcune buone notizie. La FAO si è impegnata nella redazione di una road map non solo per incrementare la resilienza alla crisi climatica, ma anche verso la decarbonizzazione del settore, che prevede anche l’inserimento di additivi nei mangimi che riducono significativamente le emissioni del bestiame. Allo stesso tempo Nestlé e altre aziende e associazioni, come l’associazione dei produttori di fertilizzanti, si sono impegnate ad azzerare le emissioni delle loro filiere entro il 2050.

Deforestazione

“Il Brasile è tornato”

Ha esordito così detto Inácio Lula, accolto come un ‘salvatore’ dell’Amazzonia. La sua è stata forse la presenza più rassicurante e motivante dopo i danni fatti dal suo predecessore, Bolsonaro, in uno scenario di vera emergenza climatica. Tra il 1990 e il 2020 il pianeta ha perso 420 milion di ettari di foreste, una superficie pari a due volte quella del Messico. Lula ha promesso una deforestazione zero, ha candidato l’Amazzonia per la Cop30 e dato un segnale positivo alla Coalizione per le foreste pluviali.

Dal postcolonialismo al loss and damage

Forse l’unico vero successo di queta Cop è stato l’approvazione di un fondo per risarcire i danni subiti dai paesi in via di sviluppo a causa del cambiamento climatico. L’apertura ad un risarcimento viene da John Kerry, ex segretario di Stato, inviato speciale del presidente per il clima, in breve la voce più potente dell’intero scenario ambientalista.

“Gli Stati Uniti sono totalmente a sostegno per i danni subiti e per l’adattamento al cambiamento climatico.”

Ma intervistato sui passi successivi da compiere ha risposto: “Non siamo ancora al finanziario, non a questo stadio, ci sono tanti paesi che hanno contribuito a questa situazione non solo gli Usa, va cercato un accordo economico che rifletta la realtà.” Sul tavolo una domanda: “Quali paesi in via di sviluppo hanno diritto ai risarcimenti?” L’Unione Europea ha rotto gli indugi rispondendo: “Tutti”. Viene creato un fondo per risarcire i danni dei paesi in via di sviluppo colpiti dall’emergenza climatica, ma anche per sostenere l’adattamento delle loro economie al cambiamento. Non è un risultato fiorito per caso come un fiore nel deserto, ma la somma di tanti sforzi e insistenze, soprattutto da parte delle comunità africane che riconosciamo nel volto di Vanessa Nakate.

Conclusioni

Sabato, penultimo giorno, le manifestazioni all’interno del compound si concentrano anche sui diritti umani e sui diritti di genere, con i manifestanti che chiedono la fine della repressione dei diritti e degli attivisti ambientali, specialmente nei paesi in via di sviluppo. L’Egitto esce male da questo tentativo di autopromozione, per i suoi sforzi di circoscrivere le proteste, per il suo eccessivo spiegamento di forze di polizia e per i suoi tentativi di spionaggio, tramite app e per mano di misteriosi personaggi che fotografavano delegati e manifestanti e altre brutte figure. Un clima decritto come teso e disorganizzato potrebbe aver influito sui negoziati. Resta che il grado centigrado e mezzo come limite di riscaldamento dal periodo preindustriale è ormai un’arrampicata himalaiana. Continueremo a bruciare fossili. A subire conseguenze delle guerre scatenate per il controllo dei fossili, o a causa della loro dipendenza. Continueremo ad assistere alla delegittimazione morale delle Nazioni Unite e dei suoi organismi da parte dei soliti noti. Ascolteremo sempre più voci che da negazioniste del clima già iniziano a dire: non c’è più niente da fare. C’è un tipo di potere convinto che la gente si stanchi di ascoltare e di combattere.

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Sinai | A pochi passi da Sharm mentre i governi si riuniscono senza soluzioni la gente estrae cibo dal deserto contando sulle proprie forze.

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