I cristiani convertiti all’Islam, per opportunismo o costrizione, furono il carburante dell’espansione ottomana. Tutto iniziò nel XIV secolo, quando un sultano decise di farsi proteggere da una guardia personale scelta, concepita come un esercito autonomo. Quella guardia personale divenne sempre più efficiente, tanto che senza quei soldati Costantinopoli non sarebbe mai caduta e l’Impero Ottomano non sarebbe mai esistito. Il criterio di leva, però, era mostruoso.

I giannizzeri, l’ossatura delle truppe ottomane
È forse il 1365 e il Sultano Murad I non si fida dei suoi soldati. La maggior parte di loro proviene da tribù di regioni remote o appena sottomesse. Murad vuole una guardia personale fedele e disciplinata, un corpo di élite in grado di tener testa all’esercito stesso. Vuole soldati privi di vincoli di amicizia o di parentela, soldati da formare nei rigidi dettami dell’Islam e della vita militare. Li vuole anche portatori di geni guerrieri. Serbi e kosovari hanno queste caratteristiche, sono fieri e fisicamente più prestanti dei turchi. Murad I ne sa qualcosa, il suo esercito si è scontrato ripetutamente con loro. Il sultano realizza i suoi intenti strappando bambini e adolescenti a quelle popolazioni per crescerli come soldati. Uno di questi bambini rapiti, da adulto, diventerà l’autore di un bestseller dell’epoca, Memorie di un giannizzero.
Lo scriverà Konstantin Michailović di Ostrovica, verso la fine del XV secolo. Ci metterà dentro l’assedio di Costantinopoli, il tradimento ai danni dei Bosniaci con il mancato rispetto di un cessate il fuoco, ma soprattutto descriverà accuratamente la vita militare e l’organizzazione di quel corpo scelto.
Man mano che l’impero si espande sempre più fanciulli, anche da altre regioni, vengono strappati alle famiglie e arruolati nella guardia personale del Sultano. Solo una minima parte sono venduti dai genitori, il maggior numero è composto da orfani o da un bottino di guerra che include esseri umani. Il loro iter formativo resta identico nei secoli. Il primo passo è l’affidamento ad una famiglia contadina dell’Anatolia, dove i bambini imparano la lingua, i dettami dell’Islam e lavorano nei campi. Dopo circa sette anni vengono inviati all’accademia militare di Istanbul dove vengono selezionati. Secondo le loro attitudini diventano arcieri, artiglieri, archibugieri, fanti di marina. Ma anche cuochi, pompieri, genieri e suonatori di trombe e di tamburi. La disciplina è ferrea. Il lavoro e l’addestramento così intensi che lasciano poco spazio al sonno, circa quattro ore a notte. Non è consentito loro di mettere su famiglia né di portare la barba, solo i baffi.
Tutto ciò, dall’assegnazione alle famiglie all’educazione militare, richiede una macchina organizzativa colossale, una macchina stabile nel tempo e perfettamente funzionante. Una macchina che nel XVII secolo, trecento anni dopo, arriva a schierare 54.000 armati. Sono tutti stranieri. Quasi tutti rapiti. La conversione all’Islam e la loro efficienza mettono in pace le coscienze.
Il successo dei rinnegati
Sulle sponde opposte, quelle cristiane, i tribunali del Santo Uffizio, sono indaffarati ad investigare gli innumerevoli casi d’abiura. Si tratta di adulti, per lo più mercanti e marinai, che hanno ripudiato Cristo ed abbracciato l’Islam. Sono uomini tornati in patria spontaneamente o perché catturati, stavolta dai cristiani. Condotti davanti ai giudici dell’Inquisizione raccontano di conversioni forzate. Raccontano di essere stati fatti prigionieri e di aver accettato la conversione per aver salva la vita, o la libertà. Nel loro caso la punizione del Santo Uffizio non sarà il rogo ma un ripasso del catechismo. Va da sé che tutte queste testimonianze sono da considerarsi inaffidabili. E le cronache dell’epoca, cristiane o ottomane, non aiutano a svelare ciò che serbavano davvero nei loro cuori, nella mente. Possiamo solo esplorare il contesto. Le reggenze della costa barbaresca erano città vibranti, dinamiche, mercati ricolmi di beni di lusso e lo stile di vita era più liberale di quanto si possa immaginare.

Il fascino di Algeri, con i suoi eccessi e le sue meraviglie, è ancora vivo nella musica e nella letteratura d’Occidente. Quella di Algeri viene descritta come una società solidale. Durante il ramadan, dopo il tramonto, i ricchi si recavano a portare i cibi raffinati dalle loro mense alla strada, ai più poveri, mentre la festa dilagava. inoltre, mentre i cristiani non convertiti erano soggetti ad abusi e discriminazioni, i rinnegati godevano di uno status superiore a quello dei mori, gli autoctoni arabi. Alcuni rinnegati divennero ammiragli, come Ivan Dirkie de Veenboer, corsaro olandese che prenderà il nome di Suleyman Rais e che diventerà il comandante del porto di Algeri, o come Simon Dansker, alias Simon Rais, altro olandese. Ad ogni modo, se dobbiamo guardare ai diversi resoconti sulla genuinità delle conversioni e alla carriera che tale atto poteva comportare, il caso più interessante è quello di un altro olandese che diventerà prima ammiraglio e poi capo di una reggenza barbaresca che acquisì il nome musulmano di uno dei fratelli Barbarossa, onorandolo. Sulla sua conversione esistono due versioni opposte.
La carriera di Murat Rais, detto ‘il giovane’
È il 1618 e la piccola nave di Jan Janzs, corsaro olandese di Harlem, si schianta sulle rocce dell’isola di Lanzarote. Come molti altri olandesi aveva scelto quel mestiere molti anni prima. L’Olanda, insieme ad altri stati dei Paesi Bassi, si era ribellata alla Spagna per una complicata faccenda di diritti politici, di tasse e di feroci persecuzioni ai danni dei protestanti. La Storia ricorderà quella resistenza come la Guerra degli ottant’anni. Una guerra combattuta soprattutto per mare. È in questo contesto che Jan Janzs ha ottenuto la Lettera da corsa. Ma la lettera lo autorizzava ad attaccare solo i Dunkirker, corsari delle Fiandre fedeli alla Spagna con base a Dunkerque. Jan trasgredisce l’ordine depredando altri navigli. Si trasforma quindi in pirata e quindi fuorilegge.
Scoperto, ripara a La Rochelle, sulla costa atlantica francese, dove arma una piccola imbarcazione. Lo ritroviamo naufrago alle Canarie, a Lanzarote. A salvarlo interviene una sua vecchia conoscenza, un certo Ivan Dirkie de Veenboer, che ora si fa chiamare Suleyman Rais, ma che dopo averlo tratto in salvo lo prende prigioniero e lo porta in catene ad Algeri. Questa la versione ufficiale. A Casablanca, in Marocco, la storia è completamente diversa: vedendosi salvato in mare da un connazionale, il pirata Jan Janzs riceve una sorta di illuminazione e abbraccia l’Islam. Varrebbe la pena spendere due parole su Ivan Dirkie de Veenboer, alias Suleyman Rais: costui è un comandante molto portato per gli affari e che da lì a poco diventerà il comandante del porto e delle dogane di Algeri, la capitale mondiale dei corsari.

Suleyman Rais, a sua volta, ha avuto un buon maestro, l’altro olandese, Simon Dansker, alias Simon Rais, un corsaro anche lui molto intraprendente, che ha iniziato la sua carriera rubando una nave a Marsiglia. Dansker, de Veenboer e Janzs avevano molto in comune. Oltre al fatto di essere olandesi avevano ritenuto le lettere da corsa europee (quella di Dansker emessa dai francesi) un po’ restrittive per le loro ambizioni e s’erano dati alla pirateria. I primi due avevano già scelto di offrire i loro servigi e la loro fede agli ottomani e all’Islam rispettivamente.
L’importante, in fondo, era indebolire la Spagna e quel Dio era lo stesso della Bibbia. Se c’è accordo tra tutte le fonti dell’epoca è sul fatto che un anno dopo quel naufragio, e quindi nel 1619, Jan Janzs è musulmano ed ha preso il nome di Murat Rais. Professarsi cristiani portava con sé parecchi fastidi e secondo i resoconti occidentali la prigionia di Jan è motivata proprio dalla sua fede cattolica. Fu comunque una breve prigionia tra amici. Janzs si trasforma in un musulmano fervente, le cronache lo dipingono molto attivo nel convertire altri cristiani all’Islam. Intanto Suleyman Rais, salvatore e mentore di Janzs, è diventato l’uomo più potente di Algeri dopo il sultano, e gli affida incarichi sempre più importanti. Inizia la carriera di Murat Rais detto il Giovane, una carriera rapidissima che lo porterà a saccheggiare la Sardegna, le Baleari e perfino l’Islanda, e a diventare presidente di una repubblica di corsari sulla costa atlantica del Marocco.
Una Tortuga alle porte del Mediterraneo
In Marocco c’è una situazione molto simile a quella europea dopo Carlo V. Il sultano Al-Mansour è morto da tempo ma le dispute territoriali tra gli eredi sono sfociate in una guerra civile che persiste da più di venti anni. Murat Rais vede in questo caos un’opportunità e si installa a Salé, un noto covo di pirati sul lato opposto del fiume che la divide da Rabat.

Secondo la confessione rilasciata ai giudici del Santo Uffizio da un rinnegato spagnolo, certo Juan Rodelgas alias Mustafa, nel 1622 Jan Janzs è già l’Ammiraglio in capo della flotta e presidente della Repubblica di Salé. Zidan al-Nasir resta il sultano, ma in una repubblica che si fonda sulla pirateria, il ruolo di comandante della flotta fa di Murat Rais il vero capo. Zidan al-Nasir è da tempo in ottimi rapporti con gli olandesi, che sostengono da sempre la repubblica nell’intento di indebolire la Spagna sul piano commerciale e militare. Da anni invia in Olanda navi piene di prigionieri olandesi liberati, ostaggi e futuri schiavi strappati ad altri pirati o corsari. Per le altre nazionalità non c’è alcun riguardo. La tratta degli schiavi è una delle voci più importanti dell’economia locale. Ma non solo.
Per i prossimi due secoli e mezzo nessuno degli imperi esistenti si farà scrupoli sulla questione. La Repubblica, dunque, va a gonfie vele ma Murat Rais vuole spingersi ancora più lontano. Il 20 giugno 1627, più che cinquantenne, Murat Rais raggiunge l’Islanda e torna con cento ostaggi. Intanto a Salé, durante la sua assenza, il sultano Zidan al-Nasir è stato destituito da una rivolta popolare guidata dai moriscos, i profughi andalusi. Murat riesce a mettere le cose insieme scrivendo agli Stati Generali, ovvero il governo olandese, e la repubblica durerà fino al 1641.
Nel frattempo Murat Rais ha il tempo di spingersi in Irlanda. Il 20 giugno 1631, esattamente quattro anni dopo l’incursione in Islanda, saccheggia Baltimora e cattura un altro centinaio di schiavi. Torna a razziare il Mediterraneo finché, nel 1635, al largo di Tunisi si trova circondato in mare dalla flotta dei Cavalieri di Malta. Viene imprigionato, sottoposto a tortura e gettato nei famigerati sotterranei de La Valletta. Fugge cinque anni dopo, grazie ad una sortita organizzata dal reggente di Tunisi. Tornato in Marocco viene nominato governatore di Loualidia, altra città marocchina sulla costa atlantica. Si spegne lì, all’età di circa ottant’anni assistito dalla figlia avuta da una moglie olandese, parte della famiglia che aveva ripudiato.
Il mito di Jack Ward
Furono centinaia gli europei, tra comandanti e uomini di mare, che cambiarono bandiera e religione. Alcuni di loro entrarono nella cultura occidentale con un’aura di leggenda. È il caso dell’inglese Jack Ward, ispiratore della figura hollywoodiana di Jack Sparrow, e sul quale sono stati scritti libri, ballate e opere teatrali. La sua storia inizia molti anni prima di Dansker, di Sulyman e di Murat Rais, inizia nel 1588 con la prima guerra dell’Inghilterra contro la Spagna, quando il pescatore del Kent John Ward, allora si chiamava John, intraprende la carriera di corsaro con una Lettera di corsa firmata da Elisabetta I.

Nel 1603 tra le due nazioni scoppia la pace e chiunque voglia continuare l’attività sarà considerato pirata, e quindi un fuorilegge a tutti gli effetti. Nel 1605 Ward è fra i primi pirati europei che frequentano Salé. Ci è arrivato dopo aver catturato navi sempre più grandi e meglio armate, in una serie di scorrerie dalla Manica all’Atlantico. Ma il suo obiettivo è il Mediterraneo, con il suo intenso traffico navale e basi sicure alla portata di pochi giorni di navigazione. A Tunisi stringe amicizia con il reggente, certo Uthman capo della guarnigione di giannizzeri, e lì si converte all’Islam. Secondo il resoconto di un britannico che lo incontra, Jack è tutt’altro che un musulmano osservante. Tantomeno il fascinoso personaggio interpretato da Johnny Depp.
“Il capitano Ward ha circa cinquantacinque anni, è molto basso, con pochi capelli completamente bianchi, viso scuro e barba. Parla poco e impreca quasi sempre. Ubriaco dalla mattina alla sera, è spendaccione e coraggioso. Dorme molto e quando è in porto è spesso a bordo. Ha le abitudini di un lupo di mare. Un idiota, fuori dal suo mestiere.”
Questa relazione, se non altro, conferma che a Tunisi i costumi sono molto rilassati e poco restrittivi. Almeno per i rinnegati. Restare lì per sempre sembra non fosse nei suoi piani. Yusuf Rais, così si ribattezza Ward, meditava di tornare in patria. Aveva inviato una lettera al re Giacomo I per chiedere il perdono, che gli era stato negato. Aveva però pestato i piedi ai veneziani, attaccando i loro navigli e catturando due cannoniere, e l’ambasciatore inglese presso la Serenissima s’era espresso su di lui in modo chiaro, definendolo una canaglia (scoundrel) della peggior specie. Il perdono del Re d’Inghilterra avrebbe attizzato un casus belli con Venezia, cosa che Giacomo I voleva evitare. Muore comunque ricchissimo in quel di Tunisi nel 1622, forse di peste, mentre l’Europa ed il Mediterraneo erano in fiamme. La vittoria di Lepanto era stata una vittoria di Pirro. L’egemonia ottomana e la fine della schiavitù, alimentata da quell’antagonismo, dovevano attendere altri due secoli.