IPCC Report – guida planetaria contro il collasso della civiltà umana

L’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) organismo delle Nazioni Unite ci fornisce un quadro che a leggerlo nella filigrana preannuncia il collasso della civiltà umana. Contiene però una buona notizia: evitarlo è possibile e sempre più conveniente.

Inquinamento industriale
La responsabilità umana è inconfutabile

Nel rapporto, come premessa, viene riconosciuta l’interdipendenza tra clima, ecosistemi, biodiversità e società umane, l’importanza di diverse forme di consapevolezza e la stretta connessione tra adattamento al cambiamento climatico, mitigazione, salute degli ecosistemi, benessere umano e sviluppo sostenibile. Lo spettro delle previsioni raggiunge l’anno 2100. Dal 1850 fino ai nostri giorni, conferma il rapporto, emissioni di gas serra e riscaldamento globale sono andati di pari passo. I grafici forniti confermano che l’innalzamento dei livelli di CO2, metano e di diossido d’azoto (quest’ultimo un prodotto della combustione dei fossili) sono speculari all’innalzamento della temperatura globale. Le attività solare e vulcanica hanno influito, in questo spettro temporale, per meno di un decimo. La buona notizia è che alcune altre tecnologie e buone pratiche, come la capacità di riflettere i raggi del sole di certe colture e il ripristino della fascia d’ozono grazie al divieto sui CFC, hanno parzialmente compensato l’azione del sole e dei vulcani. Ma l’effetto dei gas serra, fa notare lo studio, è il prodotto di un lento accumulo che parte dal 1750, dall’inizio dell’era industriale.

Effetti indesiderati e irreversibili più forti per chi ha contribuito meno al dissesto climatico

In tutte le COP gli attivisti africani si sono distinti per i loro ‘powerful speach’, presentazioni potenti, che ti attanagliano il cuore. Avevano soprattutto ragione. Secondo il rapporto il riscaldamento globale è strettamente legato allo stile di vita di poche popolazioni. L’Europa e il Nord America, che ospitano poco meno di un decimo della popolazione umana e decisamente la più ricca, sono responsabili del 41% delle emissioni storiche. Se aggiungiamo il Sud America, continente nella sfera occidentale, arriviamo al 53%. La faccenda cambia con le emissioni pro capita al 2018. Nord America, Giappone, Australia e Nuova Zelanda mantengono il record negativo. L’Europa Occidentale arriva molto dopo, dopo il Medio e l’Estremo Oriente e l’Europa Orientale. Sudest Asiatico e Africa continuano ad emettere meno gas serra pro capita ma subiscono le peggiori conseguenze del riscaldamento globale. Si parla di perdite totali di sorgenti d’acqua dolce, di intere criosfere, di ecosistemi marini. L’impatto del cambiamento climatico, più grande di quello previsto, costringe metà delle specie globali ad uno spostamento verso i poli lasciando un habitat già impoverito sempre più privo di risorse. L’adattamento al cambiamento sembra (che sorpresa) più difficile presso le popolazioni dal reddito più basso. Cadranno sulle loro spalle le conseguenze più pesanti. Inoltre, i cambiamenti idrogeologici sembrano ormai irreversibili. Il quadro è chiaro: le conseguenze del dissesto sono già un problema di sicurezza alimentare globale.

La salute dell’essere umano è compromessa ad ogni latitudine

Uno degli aspetti più interessanti del rapporto riguarda il verde urbano. Si sa, gli alberi funzionano da ‘condizionatori’ naturali. Non è solo una questione di ombra ma anche di circolazione dell’aria, di umidità, di energia assorbita e trasformata chimicamente. Poco è stato fatto a livello globale per ‘riforestare’ asfalto e cemento. L’innalzamento delle temperature ha favorito la diffusione di alcune malattie tipiche dei climi caldi attraverso l’acqua e il cibo anche in zone dove prima erano sconosciute. A seguito delle ondate di calore è stato registrato un aumento di problemi mentali e mortalità. Le ondate di calore, sappiamo bene anche questo, colpiscono duramente soprattutto nelle aree urbane densamente popolate a prescindere dalla loro latitudine. Secondo lo studio i vari paesi si sono limitati a perseguire obiettivi a breve termine e molti non hanno rispettato le scadenze. Nella lotta all’aumento delle temperature i progetti implementati dagli stati membri dal 2020 in poi prefigurano un fallimento. Allo stato attuale il contenimento entro il limite prefissato di 1,5 C° sembra ormai una chimera. È davvero tutto perduto?

Le buone notizie

La migliore di tutte è sicuramente l’abbattimento dei costi degli investimenti, e quindi dei prezzi di erogazione, per le rinnovabili che oggi globalmente sono più convenienti. A livello mondiale il prezzo del fotovoltaico è diminuito dell’85% dal 2010 ed ora si colloca nel punto più basso della fascia entro la quale oscilla il prezzo delle energie prodotte dai fossili. L’eolico, partito in vantaggio con costi minori dall’inizio, con un calo del 55% ha sfondato la soglia minima diventando decisamente più conveniente dei fossili e il più conveniente delle alternative. In bilico resta l’eolico off-shore, quello prodotto dai parchi in mezzo al mare, la cui posa ha richiesto investimenti sostanziosi. Staremo a vedere. Nonostante la ricerca, lo sviluppo e la loro implementazione siano state estremamente lente queste fonti di energia sono sempre più competitive. In un mondo che ragiona in soldoni sarebbe un’ottima notizia. L’altra buona notizia è che gli investimenti per il contrasto al riscaldamento globale sono aumentati. Il rapporto IPCC conferma che non sono soldi buttati. I finanziamenti erogati tra il 2010 e il 2019 hanno avuto i loro effetti.

L’impatto dei cambiamenti climatici sugli habitat degli animali
Uscirne vivi

La natura, lo sappiamo, sopravvivrà. La vita non sarà cancellata dalla Terra. Prevarranno forme diverse e le specie stanno già migrando. Avremo una biodiversità risicata, quindi ancora più instabile di quanto la natura lo sia già di per sé. Di conseguenza avremo un habitat inaffidabile per uno sviluppo umano pianificabile. Il problema, con tutto il rispetto per le innumerevoli specie che si estingueranno, è soprattutto nostro. Noi, come la maggior parte delle specie oggi presenti sul pianeta, ci stiamo confrontando con un cambiamento brutale, eccessivamente rapido. Lo studio di IPCC ci dà delle indicazioni su come uscirne. Non c’è più niente da fare è una solfa che serpeggia da tempo ma, alla luce del rapporto, potrebbe contenere un messaggio tossico. Alla luce di questo rapporto sembra una sorta di piano B mediatico del negazionismo del clima. Siamo agli sgoccioli, è vero, ma abbiamo strumenti migliori e più accessibili. Dobbiamo rivedere il nostro modo di coltivare, di produrre energia e di gestire le riserve d’acqua. Sarà l’innalzamento del livello dei mari la sfida più difficile. Una sfida che richiede una pianificazione dolorosa e a lungo termine. È quasi certo, purtroppo, che per il danno arrecato alle riserve di ghiaccio e visto il calore accumulato dagli oceani l’innalzamento dei mari perdurerà forse per millenni a prescindere dalle nostre prossime azioni. Migliaia di atolli paradisiaci e migliaia di chilometri di costa sono destinati a scomparire. Succederà lentamente ma succederà, centimetro dopo centimetro. Questo recita lo studio, che però ci ricorda che la possibilità di equilibrare le emissioni per il 2050 è ancora possibile. Lo sviluppo sostenibile è ancora nella finestra delle opportunità se solo decidiamo di scegliere alcune strategie di adattamento. Se accolte, queste strategie, produrranno come minimo una diminuzione dei rischi alimentari e dei fenomeni estremi come incendi e alluvioni.

Emergenza incendi a Santa Barbara County | Foto di Mike Newbry | Unsplash

Lo faranno già a breve termine. Al contrario, ogni ritardo nella strada verso la diminuzione delle emissioni aumenterà i rischi a breve termine ed i costi da sostenere per le perdite economiche e per l’adattamento al clima. Non si parla più, ormai, di ripristinare le condizioni precedenti ma di adattarci. Si parla di uno sviluppo che tenga conto della nostra capacità, come società umana, di continuare a prosperare limitando i danni. Il rapporto ricorda che fallire in questa missione significa accettare morti premature, malattie, perdite tra gli ecosistemi forestali e tra le praterie marine (il carbonio blu) e poi l’aumento di incendi e di alluvioni. Ne abbiamo avuto un piccolo assaggio.

Deserto di Sonora | Stati Uniti-Messico | Foto di Noa Em | Unsplash
Sviluppo resiliente al cambiamento climatico: i fattori chiave

Il rapporto ha identificato le strategie che potranno contribuire meglio al raggiungimento degli obiettivi del 2030 basandosi su costi ed efficacia. Nella classifica del comparto energetico spicca il solare, seguito dall’eolico. Subito dopo la riduzione dei fossili, poi la bioelettricità che include la BECCS (Bioenergy with carbon capture and storage… purtroppo non c’è ancora una voce Wikipedia in italiano). Ultime due strategie il nucleare e la tecnologia CSS (cattura e sequestro del carbonio, ne abbiamo parlato nell’ultima parte dell’articolo Clima e giovani sul piede di guerra) per i loro costi elevati e per la difficoltà di implementazione. Nel comparto idro-agro-alimentare in cima c’è lo stop alla conversione di ecosistemi naturali e poi in ordine: la cattura del carbonio nelle colture, il ripristino di foreste ed ecosistemi, lo spostamento verso una dieta più sana e sostenibile, il miglioramento della gestione forestale, la riduzione di metano e di azoto in zootecnica e agricoltura, la riduzione dello spreco di cibo e derrate alimentari.

Lago di Garda | L’Istmo per l’Isola dei Conigli a filo d’acqua per la siccità | © bresciaoggi.it

Nella sfera delle infrastrutture sono elencate, sempre con lo stesso criterio, per prima cosa le costruzioni con efficienza energetica (sì, quelle del superbonus), veicoli efficienti, veicoli elettrici, efficienza nell’illuminazione pubblica e in altre apparecchiature, potenziamento di trasporti pubblici e bici, uso di biocarburanti per i trasporti, efficienza nel trasporto navale e aeronautico, evitare servizi che consumano energia, infine: rinnovabili disponibili localmente. Per il comparto domestico, sociale ed economico, la nostra sfera privata, ecco i suggerimenti: cambiare la qualità dei carburanti, ridurre emissioni di CFC (distruggono la fascia d’ozono), puntare sull’efficienza energetica e sui materiali sostenibili, ridurre le emissioni di metano in rifiuti e acque reflue, utilizzare materiali da costruzione più sostenibili, riciclare. Infine, la cattura e sequestro del carbonio. Anche se molte di queste pratiche sono state adottate a livello europeo, resta il dilemma dell’agricoltura, che dovrà cambiare le colture in base a clima e disponibilità di acqua prima che sia troppo tardi.

Una road-map per la sopravvivenza

Le migliaia di scienziati che si sono occupati del clima dal Club di Roma ad oggi non sono cassandre. Hanno visto il pericolo per primi e ci hanno avvisati. Da almeno cinquanta anni. 50 anni buttati. Le Nazioni Unite hanno prodotto e pubblicato, pochi giorni fa, un rapporto che ci fornisce indicazioni chiare e indipendenti. Un rapporto brillante, purtroppo oscurato dalla guerra in corso. E da tanti altri fatti di cronaca decisamente più marginali del riscaldamento globale e della guerra. A mettere insieme i diversi mattoncini possiamo concludere che mai come ora ci siamo sentiti così in pericolo, come esseri umani e come civiltà.

 

IPCC | © IISD/ENB Mike Muzurakis

IPCC ci ricorda semplicemente che le nostre azioni nei prossimi mesi, non anni, sanciranno l’esito della battaglia per la nostra sopravvivenza, per come vogliamo vivere e per continuare ad abitare un pianeta accogliente come lo conosciamo. Un pianeta che ha favorito la nostra espansione negli anni della sua massima stabilità climatica. Una stabilità che noi umani abbiamo guastato a nostro discapito. Un pool di migliaia di scienziati provenienti da tutto il mondo ci ha fornito i dati e ci ha indicato la strada. È questa, probabilmente, l’ultima nostra possibilità. Riusciremo a non fare la fine dei Maya o degli abitanti di Pasqua? Sarebbe davvero idiota visti gli strumenti che noi stessi, come civiltà, siamo riusciti a produrre per evitarlo.

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