Quest’anno anche a 1000 metri di altitudine si toccano i 35 gradi. E le metropoli in Italia diventano isole di calore. Ma il coccodrillo non piange, e avvia il condizionatore a velocità massima. Con questa andatura termica sembra impossibile evitare il riscaldamento superiore ai 2 gradi, come stabilito dall’Accordo di Parigi quasi vent’anni fa.

Tutti i colori del pensiero climatico
Mentre l’anticiclone Cerbero compie a luglio il suo giro turistico lungo lo stivale, si cristallizzano gli schieramenti in tema di crisi climatica.
Si intensificano gli episodi di resistenza civile ambientalista: in Italia i dimostranti si cospargono di salsa di pomodoro davanti al Battistero di Firenze o di finto petrolio sul molo di Trieste, transennano un parco giochi a Milano denunciando aria malsana, e un giro di nastro giallo-nero tocca anche alla statua di Indro Montanelli, schedato come oscurantista da Extinction Rebellion. Sanno di essere molesti, antipatici, ma non si arrendono, pur di spostare l’attenzione sull’emergenza climatica.

Intanto su Twitter e altri social network è arrivato #climatescam, l’hastag negazionista creato da account di diverse nazionalità, fra cui anche l’Italia, quasi tutti associati a falsi profili. Qui confluiscono le adesioni alla teoria del complotto sul clima, insaporite da esternazioni più o meno colorite su argomenti e personaggi della politica, e la convinzione che i media stiano diffondendo dati errati con l’intento di scatenare il panico e promuovere la finanza green.
Più serafici gli scienziati di Climate Intelligence, fondazione indipendente creata nei Paesi Bassi nel 2019 da Guus Berkhout, prima ingegnere petrolifero poi professore di geofisica, e da un giornalista scientifico, Marcel Crock, che definisce il suo atteggiamento “scetticismo climatico leggero”. Ossia: la Terra si sta riscaldando, ma a velocità inferiore rispetto a quanto indicano i modelli climatici, e pertanto le emissioni di CO2 possono essere ridotte con parsimonia. There is no climate emercency: è il titolo della dichiarazione sul clima prodotta da Climate Intelligence, firmata da scienziati e professionisti, molti del settore minerario.
E dal sottobosco più verde della politica la provocazione: una proposta di legge del reato di negazionismo climatico. Ma non sono solo i rappresentanti di quella che è stata definita l’Internazionale negazionista di destra a criticare l’oltranzismo ecologico. C’è anche un fronte di sinistra che giudica gli attivisti a gambe incrociate sull’asfalto “fanatici ultra ecologisti”, e che li esorta a lasciare in pace gli automobilisti per manifestare invece davanti ai palazzi dei più probabili responsabili, le multinazionali coinvolte nel fossile. Che avranno quest’anno un portavoce ufficiale in occasione della COP28 che si svolgerà nientemeno che nella scintillante Dubai: Sultan al-Jaber, direttore di Adnoc, ente petrolifero nazionale degli Emirati Arabi Uniti che, come sappiamo, fondano l’85% dell’economia nazionale sull’oro nero.

Adnoc, come le principali compagnie petrolifere mondiali fanno ormai dal 2021 circa, si è impegnata a ridurre l’intensità delle emissioni di GHG del 25% entro il 2030, e migliorare la capacità di cattura del carbonio. Ma secondo il rapporto di Carbon Tracker “Still flying blind. The absence of climate risk in financial reporting”, le grandi aziende del settore oil&gas, manifatturiero e automobilistico, nonostante i piani annunciati sembrano sottostimare il rischio climatico e il suo impatto economico oltre che ambientale, escludendolo dai rendiconti finanziari. Carbon Tracker sollecita gli investitori delle multinazionali come ExxonMobil, che svetta nella classifica delle aziende che rallentano le politiche climatiche, alla trasparenza sul modello di business per la transizione energetica: fa male alla finanza oltre che al pianeta restare ancorati a gas e petrolio, in uno scenario in cu risorse e tecnologie a basse emissioni diventano concorrenziali, e cammina veloce l’esplorazione di nuove fonti come ad esempio l’idrogeno naturale.
Ancora nel limbo la carbon tax globale che dovrebbero pagare le aziende in base alle quote di emissione. E nel frattempo il conto arriva al Sud del mondo: da ottobre 2023 parte per i 27 la “carbon tax alla frontiera”, un’imposta sulle importazioni di merci prodotte con rilascio di gas serra (ferro, acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità) che provengono da paesi con standard climatici più bassi. Come quelli africani, che a causa di questo provvedimento salva-clima potrebbero subire una flessione delle vendite e un forte calo del PIL.
Ce l’avevano detto
Il primo avviso è stato lanciato molto prima di Greta Thunberg, e sempre in terra svedese. Nel 1904 il premio Nobel per la chimica Svante Arrhenius arriva alla conclusione che il livello di anidride carbonica nell’atmosfera sia responsabile delle variazioni della temperatura terrestre. Ma senza preoccupazioni ambientaliste: in un’epoca in cui la scienza teme la “morte termica” della Terra e di una nuova glaciazione, lo stesso Arrhenius accoglie l’idea dell’aumento di emissioni come un’opportunità di assestamento dell’’atlante climatico terrestre che può inoltre incentivare la crescita di vegetazione.
E se è vero che “…la scienza non è di nessun sesso…”, come disse uno scienziato presentando nel 1856 il lavoro della collega in occasione dell’incontro annuale dell’American Association for the Advancement of Science, non possiamo tralasciare il contributo della statunitense Eunice Newton Foote. A differenza di Arrhenius, che sembra sia giunto alla teoria del riscaldamento globale quasi per passatempo, Foote si era chiusa in laboratorio fra termometri e cilindri di vetro con l’intento di studiare l’interazione dei raggi solari con vari gas, fra cui l’anidride carbonica. Nella sua pubblicazione “Circostanze che influenzano il calore dei raggi del sole”, la scienziata spiega che un’atmosfera composta da un’elevata percentuale di CO2 porterebbe ad un aumento della temperatura della Terra.Nessuno ancora sostiene però la teoria che un’attività umana possa influenzare il riscaldamento del pianeta. Sarà confermata solo nel 1960 dallo scienziato statunitense David Keeling, con l’omonima “curva”, che sintetizza le osservazioni registrate nell’Osservatorio sul vulcano hawaiano Mauna Loa, mostrando una salita irrefrenabile del livello di CO2 nel pianeta dal 1958 ad oggi.

Nel 1988 nasce IPCC – il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che nel suo primo Rapporto del 1990 stabilisce che la terra si sta inesorabilmente riscaldando, dichiarando negli anni successivi che la causa è antropogenica e solo in parte naturale. E da allora si sono avvicendati rapporti, convegni, vertici dedicati al clima del nostro pianeta.
Sbatti il clima in prima pagina
Cambiamento climatico: purché non se ne parli? Mentre importanti testate straniere assegnano la tribuna d’onore a notizie come l’allerta per l’ondata di calore nelle città italiane, nel nostro paese l’allarme suona spesso con meno vigore. Per qualche tempo Covid-19 e guerra in Ucraina hanno rubato la scena alla crisi climatica. Ed ora?

Come ravvisa Luca Carra, giornalista e Docente di Comunicazione dei cambiamenti climatici e della sostenibilità, i quotidiani nazionali “…si concentrano sulla cronaca, e non colgono in generale il nesso con i cambiamenti climatici come invece tendono a fare con un certo rigore i corrispondenti media stranieri, come The Guardian, New York Times, Le Monde. Non si tratta di ricondurre il singolo episodio (caldo, alluvione o siccità, poco importa) a una causa climatica, ma il nesso in termini di maggiore probabilità e frequenza è ormai assodato. Siamo indietro su questo fronte, spesso per motivi ideologici, o per incompetenza scientifica. E non si vogliono investire risorse. Non dico di creare un desk di trenta giornalisti specializzati come hanno fatto il Washington Post, o il Guardian, ma di fare qualcosa, questo sì.” Carra è stato fra i firmatari della lettera aperta ai giornalisti italiani diffusa da Climate Media Center Italia, per sollecitare una comunicazione più incisiva del rischio climatico, che spieghi in modo chiaro le cause portando esempi concreti, che evidenzi i benefici della sostenibilità. E che non giochi troppo sulle emozioni, lanciando l’allarme ma dedicando righe anche alle soluzioni.
Emissioni in guerra e in pace
Raramente la stampa si sofferma sul peso ambientale delle attività militari. Nonostante molti paesi del mondo siano concordi nel contabilizzare il consumo di idrocarburi nel settore civile, non esiste ancora l’obbligo di dichiarare le emissioni climateranti nel ramo militare. Secondo alcuni scienziati le emissioni generate da aviazione e trasporto marittimo oscillano fra l’1% e il 5% di quelle globali. Per capire quanto, anche soltanto in tempo di pace, un esercito nazionale impatti sull’ambiente, basta leggere il rapporto pubblicato nel 2019 dalla Durham and Lancaster University sulla responsabilità del Dipartimento della Difesa statunitense. Secondo lo studio, se l’esercito americano fosse uno stato, sarebbe il 47esimo più grande emettitore di gas serra del mondo soltanto con il consumo di carburante per la sua rete di camion, aerei cargo e navi portacontainer, impiegati per esercitazioni ed operazioni umanitarie. Senza contare le emissioni dei test nucleari condotti nei siti più remoti dalle diverse potenze mondiali.
E poi, l’impatto affatto trascurabile dei gas serra rilasciati in un conflitto come quello russo-ucraino: esplosioni che rilasciano gas nell’aria, bombe incendiarie lanciate su siti industriali, infrastrutture ma anche aree verdi preziose per lo stoccaggio del carbonio. C’è poi il danno ambientale indiretto provocato dallo squilibrio energetico: con l’embargo del gas russo, la necessità di trovare alternative di approvvigionamento ha portato gli stati dell’UE ad incrementare l’uso dei combustibili fossili più inquinanti.
Incendi in Sicilia, la mappa dei roghi con i dati della NASA: https://tg24.sky.it/cronaca/2023/07/27/incendi-sicilia-mappa