Cronache artiche. I Sami e la magia: tra sciamani, roghi di tamburi e custodi di renne

Karasjok, il cuore pulsante della Lapponia norvegese

“Sono tornati a casa!”
La ragazza alla reception del Sami Museum di Karasjok me lo dice con un sorriso radioso.
“Chi?” le chiedo senza capire.
“Loro, i tamburi. I nostri tamburi: sono tornati a casa dopo secoli. Li trovi di là, nella stanza più buia: niente foto, però.”

Sami Museum | Karasjok | © Martina Fragale

Agosto di un anno fa, sono a Karasjok: un villaggio minuscolo della Lapponia norvegese, praticamente attaccato al confine con la Finlandia. Sono l’unica italiana di passaggio da queste parti (in solitaria, peraltro) e, come se non bastasse, sono anche l’unica viaggiatrice che ha deciso di fermarsi qui per tre giorni di fila: una scelta tutto meno che scontata, visto che siamo in bassa stagione e in questo periodo, da Karasjok, passano solo turisti diretti a Capo Nord, che al massimo fanno tappa qui per una notte. Di fatto, non c’è praticamente nulla di aperto: né il Parlamento Sami, né il Sapmi Park – attrattiva turistica della stagione invernale – né ristoranti.

Karasjok ha il classico, scarno profilo architettonico dei villaggi lapponi ricostruiti nel Dopoguerra: la piazza principale è dominata da un supermercato Coop Prix e da un piccolo caffè in cui le panche sono coperte di pelli di renna e dove, così come nella minuscola biblioteca del posto, nessuno parla norvegese. Qui si parla una lingua antica che è tutta un auto-scontro di vocali e gutturali: il sami. Una lingua ugro-finnica, che per secoli – molto prima che le attuali divisioni politiche facessero da spartiacque – ha rappresentato il terreno d’incontro tra le popolazioni autoctone del Nord della Scandinavia. I Lapponi.

Se, contro ogni logica, ho deciso di passare tre giorni qui, lo devo ad Alessandro Belleli, un antropologo italiano, esperto di popoli e culture dell’Artico, che ho intervistato più volte e che vive a Tromsø. “Passa da Karasjok: è il cuore del mondo sami.” mi ha detto e io l’ho preso in parola. Per fortuna, perché il Sami Museum è aperto e ospita una bellissima mostra degli antichi tamburi che, secoli fa, venivano utilizzati dagli sciamani. O meglio: con cui gli sciamani interagivano perché per il noaidi (lo sciamano lappone) il tamburo sacro non era affatto uno strumento, ma una persona “non umana” con cui rapportarsi. Un’entità, quindi, dotata di una voce e di una volontà proprie.

Tromsdalstinden – la montagna sacra dei Sami norvegesi | © Martina Fragale
Il rogo dei tamburi e gli sciamani: i Sami e la magia

La receptionist del museo ha ragione quando mi dice che i tamburi “sono tornati a casa”. Il loro è un viaggio tormentato, in buona parte vissuto nell’ombra e che ha avuto inizio con una sorta di caccia alle streghe.

Anche qui, in questo remoto angolino di mondo, c’è stata un’epoca in cui si sono accesi i roghi. Molti sciamani sono stati giustiziati e molti, moltissimi tamburi sacri sono stati dati alle fiamme. Oggi questo oscuro capitolo della storia lappone è chiamato, appunto, “il rogo del tamburi” e tra la fine del Cinquecento e gli ultimi anni del Seicento, ha portato alla persecuzione con l’accusa di stregoneria di circa duecento persone. Sciamani e non, abituati a dialogare con il mondo degli spiriti attraverso il ritmo scuro del goavvdis: il tamburo, appunto, nel linguaggio dei Sami del Nord.

Il tamburo sacro era una bussola puntata verso il futuro, che permetteva di prevedere i cambiamenti meteorologici, il tempo propizio per la caccia e per i viaggi. Ed era anche un prezioso alleato per aiutare le donne a partorire, o per scovare i ladri e indurli a consegnare il maltolto. Permetteva di interagire con il macrocosmo terrestre e con il microcosmo tribale. Il martello dello sciamano percuoteva la sua superficie, in pelle di renna, disegnata con tratti essenziali che abbozzavano un affresco sincretico in cui gli antichi dei convivevano pacificamente con immagini cristiane di chiese e croci.

Tamburo di Anders Paulsen | Sami Museum di Karasjok

Quella che, per esempio, riflette la superficie del tamburo di Anders Paulsen (il pezzo forte della collezione esposta al Sami Museum), è una fusione osmotica e senza attriti, che contrasta in modo netto con la storia cruenta dello strumento. Con il suo sequestro e la morte in carcere, per strangolamento, del suo legittimo proprietario: uno sciamano svedese accusato di aver scatenato una “misteriosa” tempesta che aveva ucciso diversi uomini la notte di Natale. Il tamburo lasciò la Lapponia ai rigori della Cristianizzazione e finì per essere suonato come uno strumento esotico alle feste di corte del re di Danimarca Cristiano IV. Il suo ritorno al museo di Karasjok, oggi, è una restituzione solenne che sul piano identitario, per i Sami, sancisce un riconoscimento esplicito. Politico, oltre che culturale.

Idem per quanto riguarda il ritorno di altri tamburi, nascosti dai legittimi proprietari e dai loro eredi negli anni bui dei roghi, finiti nei musei delle capitali scandinave nei secoli successivi e restituiti ai musei lapponi negli ultimi anni.

La vetta del monte Kjolen | Lapponia norvegese | © Martina Fragale
Il lato più misterioso e sottile della magia sami

Sciamani e tamburi: un binomio piuttosto riconoscibile quando si pensa al rapporto delle popolazioni indigene con la magia. Eppure, c’è un lato misterioso, pervasivo e ancora sottilmente attuale della magia dei Sami che in pochi conoscono e che si tende a passare sottotraccia. Qualcosa che ha a che vedere con il rapporto dei Sami con il paesaggio.

Con le seite, rocce situate in particolari luoghi, su cui si tributavano offerte sacrificali, o con montagne sacre come il Tromsdalstinden di Tromsø. Il rapporto magico con il territorio, però, è in realtà qualcosa che fatica a essere confinato nella cornice di luoghi specifici: si tratta, piuttosto, di un legame immersivo con l’ambiente. Una sorta di continuità tra esseri umani e territorio che, proprio perché lontana dalla cesura tra uomo moderno e natura, oggi può rappresentare qualcosa di prezioso.

Karasjok | © Martina Fragale

Ne parla Gianluca Ligi, professore di Antropologia all’Università di Venezia, nel suo libro “Lapponia. Antropologia e storia di un paesaggio” e lo fa rifacendosi a fonti antiche. All’ “Edda” di Snorri Sturluson dove una donna, Gunilde, racconta di essere approdata in Lapponia proprio per apprendere la magia dei Sami: “Sono qui, ella disse, per apprendere la magia dai due Finni più sapienti in tutto il Finnmark, che ora sono a caccia. Entrambi mi vogliono sposare e sono così abili che possono seguire le tracce sia sul ghiaccio che sul terreno con il disgelo, come i cani, possono correre così veloci con gli sci che nessun umano né alcun animale può avvicinarli in velocità”.

La donna a cui dà voce Snorri non si riferisce a ciò che oggi siamo abituati a etichettare come magia. Non parla di incantamenti e maledizioni, di uso della volontà magica per modificare qualcosa né, tantomeno, di sciamani o di élites magiche vere e proprie. Parla, di fatto, di una forma di conoscenza fusionale dell’ambiente circostante. Di un sapersi muovere non sullo sfondo del paesaggio, ma all’interno della natura stessa. Acquisendo le qualità del vento, dell’acqua e della terra – cosa che, dall’esterno, non può che essere vista come magia – grazie alla capacità di diventare acqua, vento e terra.

Ci ho pensato più volte mentre con Osmo, il mio prezioso amico del Nord della Finlandia, sfrecciavo in mezzo a un paesaggio innevato completamente privo di punti di riferimento o sulla superficie d’argento di quell’immenso puzzle di terre e isole che è il lago di Inari. O in mezzo a una tundra sterminata, costellata di licheni color rame e di bacche blu. Ci ho pensato mentre rispettavo religiosamente il silenzio del mio amico e lo vedevo diventare parte integrante del paesaggio in cui mi conduceva. Una vera e propria immersione, un progressivo sfaldamento dell’Io. Qualcosa di simile a ciò che Patañjali, nello “Yoga Sutra”, definisce come Samapatti: la fusione totale tra Soggetto e Oggetto della conoscenza. Perché di questo si tratta. La parte più sottile e misteriosa della magia dei Sami non è altro che una forma immersiva e fusionale di conoscenza della realtà. Qualcosa che si colloca agli antipodi rispetto a noi e al rapporto sbilanciato che abbiamo creato col mondo di cui facciamo parte.

Cosa rimane, oggi, della magia?

Mi muovo rapido e leggero, prima che qualcuno si accorga che me ne sono andato sono già nella valle successiva. Non lascio tracce al mio passaggio, non più di quanto faccia un animale. L’erba e il muschio che calpesto si rialzano. Accendo il fuoco dove altri l’hanno già acceso, la mia cenere scompare nella loro.” scrive Jussi, il piccolo noaidi protagonista di “Cucinare un orso” di Mikael Niemi “D’inverno i miei sci solcano morbidi cieli di neve, volando a un paio di cubiti dal terreno e a primavera tutte le mie impronte si sciolgono. L’uomo può vivere così, senza saccheggiare o distruggere. Senza esistere davvero. Semplicemente come il bosco, come il fogliame estivo e lo strame autunnale, come la neve d’inverno e le distese di boccioli che a primavera si schiudono al sole. Quando alla fine scompare è come se non fosse mai esistito.

Lapponia finlandese Utsjoki sul confine con la Norvegia | © Martina Fragale

Per i noaidi sami, i tamburi non erano strumenti magici da utilizzare ma persone non umane con cui interagire. Anche oggi, i Sami definiscono se stessi non come “pastori” ma come “custodi” di renne. La loro lingua (esattamente come la lingua degli Inuit, di cui ha parlato Peter Høeg in “Il senso di Smilla per la neve”) è talmente densa di sfaccettature e di un numero iperbolico di termini per definire la neve, il ghiaccio e altri fenomeni naturali, da risultare assurda per noi. Possibile che un popolo sia in grado di cogliere un numero così infinito di sfumature? Di vedere nel particolare, nell’infinitamente piccolo, cose che sono invisibili ai nostri occhi? Possibile, sì. Basta guardare le cose dall’interno e percepirsi come parte del mondo che si abita. Quelli che di solito etichettiamo come magia sono solo fuochi d’artificio ma il nocciolo della questione è un altro.

Forse possiamo capirlo per contrasto. C’è una ballata di Goethe che quasi tutti conoscono nella versione che ne ha fatto Walt Disney: “L’apprendista stregone”. In realtà, l’opera di Goethe è una fiaba iniziatica che, letta col senno di poi, descrive a meraviglia il nostro rapporto con il mondo in cui viviamo. Nella ballata, un apprendista mago incaricato dal suo Maestro di fare le pulizie, con un incantesimo mette in azione una scopa. Salvo, poi, non riuscire più a dominarla. Una metafora piuttosto calzante del gigantesco effetto boomerang che il rapporto di dominazione dell’ambiente che abbiamo innescato sta provocando. Magia, anche in questo senso: magia, però, che si colloca agli antipodi rispetto all’altra magia. Quella dei Sami che nell’ “Edda” di Snorri avevano tanto sopreso Gunilde.

È questo il dono prezioso di cui oggi rimane ancora qualche traccia: in una lingua antica, in un paesaggio il cui tessuto connettivo è fatto di vuoto e di silenzi. Forse, basterà seguirle – quelle tracce – e pregare che, prima che sia troppo tardi, ci riconducano là da dove veniamo. Verso casa.

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