Cronache artiche. Il lago dalle acque di cristallo e i Sami che arrivarono dall’Est

Sevettijärvi. Il canto delle gavie stellate e un uccello dalle ali d’acciaio

Oro pallido, rosa e grigio. Più qualche sottile vena d’azzurro. Il lago Sevettijärvi è uno specchio perfettamente immobile che moltiplica il cielo enorme, ventoso, tipico della Lapponia finlandese. Parcheggiato all’estremità del molo, c’è un piccolo idrovolante che sembra un uccello dalle ali d’acciaio.

Sevettijarvi e il suo molo | © Martina Fragale

Sono quasi le dieci di sera e il silenzio è assoluto: riempie le orecchie come ovatta. Poi, come in un canone a più voci, inizia ad accendersi un coro. Un suono rauco, rotondo, quasi un haiku fatto di note che si dilata fino a smorzarsi in una lunga eco: è il canto delle gavie stellate, che nuotano al largo, lontano dal mio sguardo.

Sevettijärvi è un lago – uno dei tanti, all’estremo Nord-Est della Lapponia finlandese – ma è anche un villaggio o meglio: una manciata di case. Quassù, in mezzo a questo sterminato puzzle di terra e acqua, sono i laghi e i fiumi a dare il nome ai luoghi. A Sevettijärvi sono arrivata per una scelta più intuitiva che razionalmente ponderata, percorrendo i centoventi chilometri che conducono da Ivalo a qui a bordo di un minibus su cui, oltre ai passeggeri (tutte persone del luogo) l’autista ha caricato anche la posta e generi alimentari di vario tipo. A Sevettijärvi, infatti, non ci sono supermercati: l’unico avamposto in cui si vende qualche genere di prima necessità è un piccolo caffè-tavola calda. Tant’è che anch’io, prima di lasciare Ivalo, ho avuto l’accortezza di fare la spesa.

Le acque cristalline del Sundeejarvi | Kaldoaivin Wilderness Area | © Martina Fragale

“Sevettijärvi?” mi chiede per la terza volta l’autista mentre mi fa il biglietto. Come, del resto, tutti i passeggeri dell’autobus, non parla inglese e l’idea di abbandonare una sconosciuta in mezzo al nulla, sembra non andargli a genio.

Gli rispondo annuendo e indicando la mappa. Lui sospira, perplesso e mi consegna il biglietto.

Si parte. Due ore di viaggio attraverso un labirinto di laghi, fiumi e boschi. La presenza umana si fa sempre più rarefatta e in compenso, in certi punti, il minibus deve fare lo slalom fra le renne che si affollano in mezzo alla strada. Quando arrivo a destinazione e l’autista mi deposita – apparentemente – in mezzo al nulla, ho un momento di sgomento. Controllo la mappa e sì, effettivamente sono dove dovrei essere ma non vedo nulla che ricordi un villaggio vero e proprio. Per fortuna, però, ormai, conosco la Lapponia finlandese e so cosa aspettarmi. Imbocco una stradina che si inoltra fra gli alberi ed ecco che capisco di essere davvero arrivata. Il lago c’è, così come il piccolo caffè-tavola calda e un gruppetto di case sparse. Ma soprattutto, c’è un cucciolo di pastore australiano che mi salta addosso festoso e che non smetterebbe di propinarmi effusioni d’affetto se, a liberarmi, non intervenisse il padrone.

“Mese, giù! Sta buono! Ehi, che ci fai qui: ti sei persa?”

È così che arrivo in quella che nei prossimi giorni sarà la mia dimora. Una rumorosa, allegra casetta rossa dove abiterò insieme a Katja e Keke, i padroni di casa. Pastora di renne e insegnante di lingua e cultura sami, lei, cacciatore di orsi, lui.

Acque limpide come il cristallo sulle rive di Sevettijarvi | © Martina Fragale
C’era una volta la Russia

Un samovar d’argento e un’icona. Già sull’uscio di casa, i segnali parlano da soli. Non siamo proprio sul confine russo – in realtà la frontiera più vicina, a soli trentacinque chilometri di distanza, è quella norvegese – ma di fatto, gli echi della cultura russa si sentono, eccome. Dall’immagine di San Trifone di Pečenga, con tanto di scritte in cirillico, su un muro del piccolo caffè del villaggio, al cimitero ortodosso – con le tombe ricoperte di licheni bianchi e la chiesetta – fino alle impronte che emergono, in filigrana, dal linguaggio.

Una tomba ricoperta di licheni bianchi nel cimitero ortodosso di Sevettijarvi | © Martina Fragale

Non siamo in Russia, no, e chi parla dell’ingombrante “vicina di casa” lo fa con un misto di timore e di astio, ma le radici sono radici ed è un fatto che i Sami Skolt vengano dalla Russia. Tant’è che – come mi racconta Keke – se nella lingua dei Sami del lago di Inari, si dice “grazie” con una parola molto simile al kiitos finlandese, qui il termine quasi si confonde con il russo spasiba.

Del resto, è proprio Keke a suggerirmi una chiave di lettura per mettere a fuoco il guazzabuglio di culture che si intrecciano in questa terra puntellata di laghi: “Sono nato dalle parti di Nellim, un villaggio a pochi chilometri dal confine russo e prima di venire qui ho abitato in un casa nel cuore della foresta” racconta. “La persona più vicina abitava a venticinque chilometri da me e non era finlandese, ma russo. Si chiamava Vassili. A volte attraversavo la Terra di Nessuno e andavo a fare quattro chiacchiere con lui, che mi rispondeva dall’altra parte del confine.” Gli chiedo come abbia fatto ad attraversare la Terra di Nessuno. Non perché sia materialmente inaccessibile (è segnalata solo da una recinzione di nastro adesivo giallo che cinge gli alberi) ma perché è un confine percepito, sovraccarico di significati emotivi. Un finis terrae che spaventa e non solo per i droni che monitorano la zona. A Keke, però, la cosa sembra non importare più di tanto: con la sua tuta mimetica – e munito di un permesso, mi dice – confessa di aver fatto più volte avanti e indietro. “Come facevi a comunicare con Vassili?” gli chiedo “Parli russo?” Keke scuote la testa. Non parla russo ma è un Sami Skolt, così come lo era il suo vicino. Il che significa che, a dispetto delle diverse nazionalità, avevano un linguaggio comune. D’altra parte, Sapmi – la “non nazione” sami, un’unità culturale fatta di dialetti diversi ma di codici identitari molto simili – esisteva già molto prima che gli Stati nazionali tracciassero i loro confini. Peraltro, spostati più volte.

Sami Skolt Museum | © Martina Fragale
Avere in sé le proprie radici e portarsele dietro come una carovana: il lungo viaggio dei Sami Skolt

Quella dei Sami Skolt è una metastoria, una trama che nei secoli si è sviluppata sottotraccia, a volte intersecando e a volte semplicemente fiancheggiando la Storia con la esse maiuscola. Il punto è proprio la parola “confini”: uno steccato mentale che per un popolo tradizionalmente nomade, abituato a spostarsi stagionalmente per seguire le renne nelle loro migrazioni, ha un significato molto liquido. Non parliamo di déracinés: il legame con il territorio c’è ed è fatto di laghi e fiumi, di taiga e di tundra. Abbraccia una terra che non è mai patria, ma Madre.

Kaldoaivin Wilderness Area, salendo verso Utsjoki | © Martina Fragale

Sarà per questo che al netto dei tanti spostamenti innescati dalle guerre del Novecento – e amplificati dal fatto che a Pečenga, nei territori d’origine, sia stata scoperta una miniera di nichel di interesse strategico – quello dei Sami Skolt verso la Finlandia somiglia più al passaggio di una carovana che a un traumatico flusso di sradicati. La loro regione, già teatro di un forte flusso multietnico calamitato dal lavoro minerario, è stata finlandese dalla fine della Grande Guerra alla conclusione del secondo conflitto mondiale e poi è diventata sovietica. Alcuni Skolt hanno scelto di rimanere ma la maggior parte, intimorita dalle collettivizzazioni forzate e dallo spauracchio dei gulag, ha deciso di migrare in Finlandia. In parte a Nellim, sulle rive del lago di Inari e in parte proprio qui, a Sevettijärvi.

Quello che oggi è il principale insediamento finlandese di Sami Skolt è quindi, in realtà, un “accampamento” storicamente recente. Eppure, il legame con il luogo è palpabile: cosa che, in una prospettiva nomade, è più che comprensibile. In parte perché, seguendo gli spostamenti delle renne, è probabile che molti Skolt abbiano piantato qui le loro tende anche in passato. E in parte perché il legame con il territorio, per i Sami, è qualcosa che va al di là del profilo specifico di una foresta o di un lago. Ha a che fare, piuttosto, con gli elementi – acqua, terra, aria – e gli elementi sono un continuum. Se hai la tua patria nel vento che spazza la tundra, nella trasparenza silenziosa dei laghi e nel verde cupo delle foreste, in fondo non ti sentirai apolide se le rivoluzioni dello scenario geopolitico ti spingeranno a mettere radici altrove.

Sevettijarvi, il lago spazzato dal vento | © Martina Fragale

Se mai, saranno altri i fattori di crisi. Lo smembramento delle comunità e delle loro economie, come nel caso delle collettivizzazioni forzate. Le politiche nazionali di accentramento linguistico, che hanno portato alla scomparsa di diverse lingue sami: globalmente, due si sono già estinte mentre tre sono state dichiarate in pericolo di estinzione. O, peggio ancora, la devastazione dell’ambiente: l’impatto dei cambiamenti climatici, ma anche quello – molto più subdolo – delle implicazioni stesse della transizione energetica. Un tema complesso che vede spesso le comunità Sami in prima linea per opporsi alla costruzione di parchi eolici, all’estrazione di terre rare o a miniere che, sulla carta, dichiarano di agire in base a criteri di specchiata sostenibilità ma che nella realtà rappresentano una minaccia. Sevettijärvi, però, sembra molto lontano da tutto questo, per fortuna.

Come tessere di un puzzle. La memoria, la si ricostruisce insieme

La natura, qui, sembra un’isola felice in cui a nessuno è ancora venuto in mente di scavare miniere o di abbattere foreste per costruire parchi eolici. Il cimitero ortodosso del villaggio confina anzi con l’inizio del Sevettijärvi Pullmanki Trail: una settantina di chilometri che conducono nel bel mezzo dell’area selvaggia più grande della Finlandia, la Kaldoaivin Wilderness Area. Quasi tremila chilometri quadrati di tundra e di laghi, che sconfinano – a Settentrione – con l’area di Utsjoki e le terre dei Sami del Nord.

Pullmanki Trail, arrivando a Opukasjarvi | © Martina Fragale

Ai confini di questo incombente Nulla fatto di betulle nane piegate dal vento, sentieri che affondano nel permafrost e morbidi cuscini di muschi e licheni, ci sono i boschi in cui Katja e Keke vanno a raccogliere i funghi, i pini cembri su cui appendono la loro tenda-amaca (perché dormire fuori, sotto le stelle, è un tesoro impagabile). Gli abeti su cui appendono un bersaglio per insegnarmi l’arte del tiro con l’arco, che qui si usa ancora per cacciare gli animali più piccoli.

L’equilibrio uomo-natura è sempre un atto di funambolismo ma qui ci si sente ancora al sicuro. C’è spazio per l’uomo e c’è spazio per tutto il resto.

Anche per mantenere acceso il fuoco dello spirito di comunità: a partire dalla cura con cui si coltiva la lingua, che Katja insegna a scuola e che nell’area di Sevettijärvi conta il maggior numero di persone ancora in grado di parlarla: circa il settanta per cento della popolazione locale, a voler dar ragione alle stime. Una percentuale poco credibile, secondo quanto mi dice il responsabile della Skolt Sami Heritage House: “In realtà è vero che il sami skolt viene insegnato a scuola, ma poi i giovani tendono a migrare altrove e fuori dalla comunità – non parlandola più – è facile che la lingua venga dimenticata” mi dice. Vero, ma la scuola, nella sua opera di alfabetizzazione, svolge un ruolo comunque fondamentale. Siamo lontani anni luce dalla cupa rassegnazione di chi si è trovato ad assistere, impotente, alla progressiva scomparsa della propria lingua. “Prendi un bastone e attizzi le braci accese. Fino al punto in cui i ricordi feriscono, richiami alla mente le antiche parole: Sole, Tundra, Acqua, Madre, Padre, Terra” scriveva la poetessa sami Oktyabrina Voronova, tessendo il canto del cigno di un dialetto lappone, della penisola di Kola, ormai in via di estinzione.

Il lago Sevettijarvi nella luce della sera | © Martina Fragale

A Sevettijärvi, invece, la lingua vive e ha ancora un rapporto di stretta corrispondenza con il paesaggio e con le usanze che lo colorano. Il segreto, forse, sta nel nutrire il Cerchio. Ci penso mentre, aiutandomi con due app per tradurre in simultanea dal finlandese, assisto a un’assemblea in cui una ricercatrice universitaria sottopone agli abitanti del luogo alcune vecchissime foto della prima migrazione dalla Russia. L’obiettivo è ricostruire la memoria insieme. Quando arrivo, la sala è stipata. C’è chi lavora a maglia, chi si versa una tazza di tè. In collegamento da remoto, la ricercatrice mostra una carrellata di foto ed espone i risultati – ma anche i buchi – della sua ricerca. La gente interviene, qualcuno si commuove: c’è chi, fra le foto, riconosce suo nonno e ne racconta la storia. I ricordi prendono forma, trasformandosi in ricostruzione storica e mentre assisto, da spettatrice, mi dico che la memoria – in fondo – è proprio questo: un processo di ricostruzione collettiva. Un terreno poroso su cui si gioca il complesso tema dell’identità.

Tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco” ha scritto Jean Jaurès, molto lontano da queste terre. E al di là del tempo e dello spazio, quassù, questo, sembrano saperlo tutti molto bene.

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