Ci sono piante alte e sgargianti nelle praterie del Nord America che sotto la luna di maggio soffocano il manto di fiorellini dai colori più timidi: sono i “killers of the flowers moon” che il giornalista d’inchiesta David Grann nel saggio “Gli assassini della terra rossa” (Corbaccio, 2017) paragona ai loschi arrivisti del petrolio che negli anni ’20 assassinarono decine di nativi americani a Fairfax, cittadina sbocciata con gli affari dell’oro nero nella riserva Osage.

Un periodo chiamato “il regno del terrore” che nel 2023 viene raccontato nel film diretto da Martin Scorsese, prodotto e interpretato da Leonardo di Caprio, che da anni brilla anche come stella polare dell’ambientalismo e dell’ecologia etica. Il sette-volte-nominato all’Oscar Leonardo ha finanziato programmi e progetti per oltre cento milioni di dollari per la tutela della biodiversità e degli ecosistemi a rischio. E delle popolazioni locali a cui gli avventurieri ieri e le multinazionali oggi hanno fagocitato terra e risorse.

Quando i nativi ballavano il Charleston
Quella degli Osage è una storia insolita. Furono trasferiti con la forza in Kansas, dove i pionieri (fra cui la famiglia di Laura Ingalss Wilder, autrice di “La piccola casa nella prateria”) si impossessarono delle loro terre; decimati dai massacri e dalle malattie trasmesse dagli occidentali (fra cui il vaiolo), si adeguarono ad acquistare una riserva nell’arida regione che diventerà l’Oklahoma (“uomini rossi”), in cambio di una misera rendita annuale che per diversi anni si tradusse in una scorta di cibo e vestiti. Qui le uniche risorse erano la caccia ai pochi bisonti rimasti e il commercio di pellame. Nel frattempo nella riserva Osage giungevano a cavallo cacciatori di fortuna fortemente motivati a tappezzare la prateria di cittadine, mercati, recinti per le mandrie. Faceva parte del progetto tessere buoni rapporti con la comunità nativa, che dovette pagare questa tregua con la rinuncia alla propria identità. Anche gli Osage furono sottoposti al processo di assimilazione che inesorabilmente cancellava la cultura nativa: nomi anglofoni, religione cattolica, abbigliamento e usanze occidentali, tra cui quella dei liquori, che spesso utilizzavano i bianchi malfidati per inebetire gli indigeni e rastrellare più facilmente i loro beni.

All’alba del ventesimo secolo la scoperta nella riserva Osage dei giacimenti petroliferi capovolse le gerarchie. Gli imprenditori minerari dovettero pagare concessioni e royalties sempre più elevate ai proprietari Osage, che in pochi anni divennero la tribù indiana con il reddito pro capite più alto del mondo. Ad ogni fontana color ebano i dividendi aumentavano, e negli anni ’20 i giornali raccontavano di indiani milionari che giravano in pelliccia e anelli di diamanti al volante di automobili di lusso; una “plutocrazia pellerossa” che mandava i figli a studiare in Europa, e che si faceva servire da camerieri neri o messicani, talvolta anche bianchi, che gli americani chiamavano con sprezzo “pot-lickers” (quelli che leccano il fondo del barile).

L’invidia del self-made-man
Grazie ad una manna sgorgata dal sottosuolo l’ex “buon selvaggio” minacciava di compiere una pericolosa scalata sociale. Per domare l’euforia per l’improvvisa ricchezza il Governo americano assegnò ad ogni Osage classificato “incompetente” un tutore che avrebbe monitorato le uscite, ma che gestiva arbitrariamente il patrimonio. Di contro gli Osage ottennero che le concessioni non potessero essere acquistate ma solo trasmesse in via ereditaria. Non a caso in quel periodo a Fairfax vennero spesso celebrati matrimoni misti. E molti Osage morirono in circostanze misteriose rendendo ricchi i loro parenti bianchi. Come accadde alla famiglia di Molly, giovane e benestante nativa che in pochi anni perse la madre e le sorelle, rischiando lei stessa di morire avvelenata. Delitti che restarono per molto tempo nel limbo dei casi irrisolti a causa della corruzione degli inquirenti locali. Finché J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI, per promuovere l’immagine della polizia federale inviò a Fairfax l’ex ranger Tom White, definito da Grann come un “cowboy sotto copertura”. Insieme ad una squadra che includeva anche un agente nativo, e ricorrendo spesso ad informatori reclutati fra i delinquenti locali, White riuscì a portare in tribunale i colpevoli della cospirazione. Secondo il Federal Bureau erano stati commessi 24 omicidi. Oggi sappiamo che molti altri casi furono insabbiati. Una certezza: le vittime avevano spesso in comune lo stesso tutore amministrativo. E, secondo il resoconto di un agente dell’epoca la tecnica più seguita era quella di far ubriacare i malcapitati e praticare loro un’iniezione letale di morfina in modo che il decesso risultasse “intossicazione alcolica”.
Un western socio-ecologico
Il romanzo di David Grann dedica molte pagine all’indagine e al processo. Di Caprio non desiderava realizzare “…l’ennesima storia di un agente FBI bianco che salva la situazione…”, ed insieme al regista si è concentrato sulla storia degli Osage come di un popolo tradito dall’avidità dell’uomo bianco che credevano amico. Nella fattispecie, William Hale, detto “il re delle Osage Hills” per il suo affarismo tentacolare. Interpretato da un Robert De Niro magistralmente bipolare, ora benefattore ora carnefice, Hale riteneva gli Osage un popolo meraviglioso ma destinato ad una imminente estinzione per la loro congenita fragilità.
Ma il personaggio più controverso è quello di Di Caprio: Ernest Burkhart, marito di Molly, un veterano della Prima Guerra Mondiale dalla postura curva e lo sguardo sfuggente, che conduce una vita da balordo in sala da biliardo. Una creatura debole che rapidamente diventa un ingranaggio del complotto, affermando con il candore di un bambino di ”amare i soldi quasi quanto ama sua moglie”. Ma l’Ernest di Leonardo di Caprio vola oltre i confini spazio-temporali: il suo volto è quello di tutti i vassalli del potere che nei secoli hanno eseguito genocidi e massacri senza coscienza della gravità delle loro azioni. Il volto di quella “banalità del male” teorizzata dalla filosofa Hanna Arendt per cui la mancanza di idee e di immaginazione possono predisporre al crimine. E ricondotto ad oggi, l’approccio di Ernest è quello di un’umanità che ogni giorno sul pianeta distrugge un frammento di bellezza senza senso critico finché nessuna tragedia la coinvolge direttamente. La stessa indifferenza ostentata dalla classe dirigente di fronte alla previsione della fine del mondo (maschera di quella attuale per l’emergenza climatica) contro cui combatte lo scienziato-Di Caprio nel distopico “Don’t look up” di Adam McKay (2021).

Il raggio verde della stella Leo
“Killers of the flowers moon” è prodotto dalla Appian Way Production: fondata da Di Caprio nel 2001, ha realizzato molti lungometraggi su temi ambientali e sulla crisi climatica in particolare, come “L’undicesima ora” di Leila Conners Petersen e Nadia Conners (2007), “Prima del diluvio” di Fisher Stevens (2016) e “Ghiaccio in fiamme” di Leila Conners (2019).
“Se solo tutti gli attori di Hollywood si dedicassero alla causa del clima…” così ha sigillato Leonardo di Caprio nel 2016 il suo discorso alla consegna dell’Oscar per la sua interpretazione in “Revenant” di Iñárritu, riferendosi allo star system più celebrato ma anche a chi coltiva la “politica dell’avidità” che continua ad annegare i popoli più svantaggiati.
A soli cinque anni Leonardo è già davanti le telecamere, anche se per tutta l’infanzia fantastica di un futuro da biologo marino. Poco più che ventenne incontra l’allora vice Presidente degli Stati Uniti Al Gore, uno fra i primi a parlare apertamente di cambiamento climatico. È allora che Di Caprio alias “the noodle” (Testadura) realizza che il suo nome ormai celebrato in tutto il mondo dopo il successo di Titanic può diventare un valido destriero per una crociata ecologica planetaria. Il primo passo è la costituzione della Leonardo Di Caprio Foundation per la salvaguardia degli habitat naturali di tutto il mondo. Nel tempo Leonardo accanto ai premi cinematografici poggia sul caminetto quelli per il suo attivismo verde, fra cui quello di Messaggero di Pace delle Nazioni Unite. E collabora con altri vip: nel 2019 insieme a Laurene Powell, vedova di Steve Jobs, fonda Earth Alliance una rete per accelerare soluzioni contro la crisi climatica. Nel 2021 insieme alla Global Wildlife Conservation lancia Re:wild, un brand che lavora per il ripristino di aree naturali compromesse, collaborando attivamente anche con le popolazioni indigene. “Gli eroi ambientali di cui il pianeta ha bisogno sono già qui. Ora dobbiamo tutti raccogliere la sfida e unirci a loro” ha affermato Di Caprio.

Si fa quel che si può…?
Già dopo pochi decenni dal boom, l’oro nero si andò esaurendo. Oggi Fairfax è una città fantasma, e in tutta la riserva sono rimasti solo gli stripper, i pozzi che producono meno di quindici barili al giorno. Con l’assegno trimestrale della concessione petrolifera una famiglia Osage non riesce a vivere decorosamente. I nativi hanno trovato altre fonti di reddito, come una catena di casino i cui guadagni finanziano il Governo della Nazione Osage, scuole e ospedali. Solo nel 2011 gli Osage hanno ricevuto dal Governo degli Stati Uniti una parte dei fondi petroliferi mal gestiti.
Scorsese e Di Caprio hanno restituito realismo ed attualità ad una vicenda che negli anni andò svanendo dalla memoria. Anche questo è un risarcimento.
Si potrebbe dubitare dell’autenticità del marchio “equo e solidale” del film: uno dei produttori è Daniel Friedkin, in Italia noto come il Presidente della A.S. Roma, anche lui curatore di diversi programmi di conservazione ambientale, ma anche esclusivista di vendita di automobili Toyota in cinque stati USA, pilota provetto di aerei militari d’epoca e proprietario di una catena di resort di lusso in Tanzania che organizza safari fotografici ed escursioni in elicottero. Il master in finanza c’è e si vede. E se all’insegna della diversificazione dal suo portafoglio spunta un riflettore su un crimine contro l’umanità caduto nell’oblio, ben venga.
