Dodo, si può fare!

“Il Dodo non c’è più! “scrisse il poeta britannico di fine ottocento Hilaire Belloc, chiosando: “.ma puoi vedere ancora il suo scheletro ed il suo becco, tutti nel mu-se-o.” Versi che potrebbero diventare anacronistici, grazie all’ingegneria genetica.La statunitense Colossal Biosciences ha annunciato di voler resuscitare il simpatico uccello che fino al 1662, anno della sua scomparsa definitiva, deambulava spensierato nella natia isola di Mauritius. L’obiettivo di Colossal, che di recente ha ricevuto un voluminoso finanziamento dallo United States Innovative Technology Fund (USIT), è “guarire il pianeta” attraverso il ripristino dell’ecosistema, partendo dalla de-estinzione di alcune specie: oltre al dodo, in cantiere c’è il ritorno del mammuth e della tigre della Tasmania o tilacino, due rappresentanti della megafauna, il gruppo in vetta alla catena alimentare.

Torna a casa Dodo (e salva l’ambiente)

Prima dell’approdo a Mauritius delle navi olandesi e portoghesi, il Dodo conduceva un’esistenza di pigra serenità: privato da madre natura della capacità di volare per l’assenza di predatori interessati alla sua stazza, che aumentò con la vita sedentaria (poteva pesare fino a 30 kg), si cibava di frutti alla sua portata. Furono i coloni a provocare la scomparsa del dodo, non perché ghiotti della sua carne, che si tramanda fosse disgustosa, ma perché distrussero il suo habitat estirpando le piante di cui si nutriva, introdussero animali domestici che lo spaventarono e si cibarono delle sue grosse uova, facili da rubare nei nidi allestiti a terra e non sugli alberi. Il dodo, o dronte, è sopravvissuto nell’immaginario collettivo come simbolo di simpatia, placidità, talvolta goffaggine: in “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewiss Carrol appare nel capitolo “Brigata delle creature strane”, rappresentando la caricatura di un uomo di chiesa dell’epoca, affetto da balbuzie (il reverendo Do-Do-Dodgson…).

A resuscitare il dodo sarà l’Avian Genomic Group, diretto dalla paleogenetista Beth Shapiro. Viene utilizzata la biotecnologia CRISPR, che consiste nel sequenziare e assemblare un genoma per ottenere un nuovo codice genetico, fino all’impianto del prodotto finale in una madre surrogata. Nel caso del dodo, si utilizza il DNA estratto da un teschio della collezione del Museo di storia naturale della Danimarca, insieme ai genomi di uccelli simili come l’estinto “solitario di Rodriguez” e il vivente piccione delle Nicobare, mentre la gallina sarà la mamma “in affitto”. Con questa “genomica comparativa” si spera di ottenere uno o più genomi di dodo del terzo millennio, anche perché: “Una volta che una specie si è estinta – spiega la dottoressa Shapiro – non è davvero possibile riportarne una copia identica.”

A Beth Shapiro abbiamo inoltre chiesto il significato di questa avventura genetica, e come è possibile reintrodurre un’animale estinto da secoli in un angolo di mondo ancora molto affascinante dal punto di vista naturalistico ma comunque “antropizzato”.

“Riportare indietro qualcosa come il dodo avrà una serie di conseguenze positive sull’ecosistema. Naturalmente per renderlo capace di prosperare nel suo habitat originario sarà necessario ricreare un ambiente in cui siano rimosse le specie invasive che lo hanno portato all’estinzione. E questo aiuterà le altre specie endemiche che devono lottare per sopravvivere in un contesto naturale modificato dall’uomo.” Il comitato di accoglienza del dronte a Mauritius dovrà quindi essere selezionato: no agli animali che potrebbero aggredirlo, saccheggiare il suo nido o ridurre le scorte di quei semi e bacche di cui era ghiotto.

Al tempo dei coloni tutto l’ecosistema di Mauritius venne sconvolto con l’introduzione di animali stranieri come i maiali, le capre, i ratti, i macachi, che insieme allo sfruttamento umano delle risorse naturali provocarono una perdita di biodiversità. Si sono perse le tracce di molte altre specie endemiche, come il gufo e il piccione blu di Mauritius.

E se l’entusiasmo e la curiosità per il Dodo risorto portasse ad un incremento massiccio a Mauritius del flusso di turisti e giornalisti? Con buona pace delle istituzioni locali, ci auguriamo che l’uccello venga protetto da telecamere e selfie inopportuni. E che non si verifichi, come è accaduto da quando l’uomo ha cominciato a viaggiare, un trasferimento di Dodo in altri paesi. “L’intento di Colossal è il rewild delle specie nel loro ambiente naturale. Non è assolutamente previsto di introdurre il dodo in altri habitat, dove tra l’altro non sarebbe in grado di sopravvivere.” dichiara Shapiro.

Un’eco-missione per ogni estinto

Perché investire cifre a molti zeri su animali che non esistono più, quando potremmo concentrarci sulla salvaguardia di tante specie a rischio? Domandano gli scettici della de-estinzione. Secondo l’imprenditore Ben Lamm e il genetista di Harvard George Church, che hanno fondato Colossal nel 2021, non si tratta di soddisfare un’ambizione da novelli Frankenstein (o almeno, non solo!): una specie estinta reinserita nel suo ambiente potrebbe attivare un miracoloso rewild, con effetto domino su tutto il pianeta.

Il mammut lanoso, ad esempio, potrebbe riconsegnare l’antica biodiversità alla steppa artica, un tempo il più vasto ecosistema del pianeta, e combattere il cambiamento climatico: con la sua pesante andatura schiacciava il ghiaccio che così compresso manteneva una temperatura stabile (lo scioglimento del permafrost artico, un magazzino di resti di piante e animali, rilascia 600 milioni di tonnellate di carbonio ogni anno), e con una zampata raschiava la neve favorendo la penetrazione di aria fredda nel suolo e la sopravvivenza di una vegetazione tipicamente artica, a base di sconfinate praterie che, rispetto alle foreste ora predominanti, inibiscono l’umidità e favoriscono l’effetto albedo, conservando il freddo.

In realtà un tentativo di ricostruzione dell’ecosistema dei mammut allo scopo di ridurre l’effetto serra è già avvenuto: nel 1996 è stato inaugurato nella Siberia del Nord il Pleistocene Park, da un’idea dello scienziato Sergey Zimov. Per diffondere la vegetazione della steppa di milioni di anni fa Zimov ha pensato di reinserire la megafauna erbivora che calpestando e brucando favorisce la crescita di erbe e cespugli: cavallo della Jakuzia, renna, yak, capra da pelliccia, bue muschiato…

Il mammut potrebbe anche salvare gli elefanti moderni dall’estinzione: il progetto prevede la resurrezione di un colosso resistente al freddo con i tratti tipici del suo antenato lanoso, intervenendo sul genoma delle tre specie di elefanti viventi (asiatico, della foresta africana e della savana), che rischiano di scomparire per varie cause fra cui un tipo di herpesvirus fatale per i giovani esemplari. Con la registrazione e conservazione del codice genetico dei pachidermi ancora viventi la ricerca contro questa malattia e il lavoro di recupero del mammut viaggeranno insieme.

Anche la tigre della Tasmania giocava un ruolo fondamentale nel suo habitat: sebbene non fosse un primatista di velocità e non ostentasse mascelle formidabili, si collocava all’apice della catena alimentare nutrendosi di piccole creature e animali deboli, mantenendo il giusto equilibrio nell’ecosistema. La sua estinzione, nel 1936, ha segnato l’inizio del cosiddetto “declassamento trofico”: l’assenza del vertice ha fatto oscillare la piramide naturale, con esiti disastrosi come la diminuzione del sequestro del carbonio e il diffondersi del tumore facciale nel diavolo della Tasmania. Quest’altro animale, rissoso e mordace, reso celebre anche dai cartoni animati della Warner Bros, è il co-protagonista dell’ ”operazione tilacino”: con il ritorno del lupo marsupiale verrebbe ristabilito un ordine che potrebbe restituire la salute anche al diavolo della Tasmania e permettergli di sfidare le specie invasive, consentendo ai piccoli mammiferi nativi di ripopolarsi. Anche in questo caso una de-estinzione può guarire un ecosistema. E a differenza del mammuth, che scomparso nel Pleistocene non ci ha potuto lasciare un’eredità genetica, molti embrioni di lupo marsupiale, il cui genoma può essere utilizzato, sono stati conservati in fluidi stabilizzanti nei musei australiani.

Tutti figli dell’estinzione

In accordo con la teoria dell’effetto farfalla, l’uomo esiste anche grazie alle estinzioni avvenute nel Paleozoico e Mesozoico: Massimo Sandal, scrittore e giornalista scientifico, nel suo libro “La malinconia del mammut” (edizione il Saggiatore) definisce l’estinzione come un fatto naturale che crea lo spazio per l’arrivo di nuove specie, favorendo un recupero della biodiversità perduta. “Le estinzioni sono una serie di maree naturali della storia della Terra, che ogni volta ripuliscono la spiaggia e lasciano sulla sabbia qualche cosa di nuovo e di diverso” scrive.

Sandal commenta la de-estinzione di dodo e mammut come una forma di “sciovinismo tassonomico”: sono stati finanziati progetti dedicati alle specie estinte più popolari, trascurando altri animali potenzialmente utili, o il mondo vegetale. Certamente il dodo ha più appeal del solitario di Rodriguez, anche se sono praticamente cugini.

“Al di là delle giustificazioni, de-estinguere è principalmente realizzare un sogno del nostro immaginario, nostalgico delle creature perdute. Il fatto che Colossal si focalizzi principalmente su specie assai “carismatiche” e celebri, come i mammut o i dodo, invece che su stringenti considerazioni di fattibilità o di ruolo ecologico, ne è la prova.” dichiara Sandal “Detto questo, esiste la flebile possibilità che de-estinguere specie scomparse di recente, in alcuni casi, possa contribuire a ricostruire o a irrobustire ecosistemi.”

E conclude: “Personalmente non ho niente in contrario ai tentativi di de-estinzione, che ritengo assai affascinanti, ma basta essere onesti con sé stessi: è una tecnologia che serve i nostri bisogni culturali, emotivi, economici, più che l’ambiente.”

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