Pericolosi naufraghi su zattere di plastica

Alcune specie tipicamente costiere hanno colonizzato le isole di plastica alla deriva nel Pacifico. Per quanto la scoperta fornisca ulteriore prova dell’indomata vitalità delle creature marine, non è una buona notizia. Le specie che hanno attecchito si sono evolute in un ambiente totalmente diverso, sicuramente più sano, ma non è questa l’unica preoccupazione.

Great pacific garbage patch | © AFP Photo
Come nascono le isole di plastica

Un tempo, qualche appassionato di letteratura di mare lo ricorderà, si parlava di un famigerato Mar dei Sargassi, un luogo dove oppressi dalla costante bonaccia languivano i velieri. Si tratta di un’ampia distesa di mare tra le Antille, le Bermuda e le Azzorre dove per le scarse correnti e la virtuale assenza di vento si accumulano alghe e detriti. Non è un fenomeno esclusivo dell’Oceano Atlantico settentrionale. In tutti gli oceani del pianeta gli alisei, i venti costanti che soffiano verso ovest nella fascia tropicale e verso est nella fascia temperata, imprimono alle correnti oceaniche un movimento circolare. In senso orario nell’emisfero nord ed antiorario nell’emisfero sud. L’oceanografia li chiama vortici oceanici. Al centro di questi vortici non c’è corrente ed i venti sono straordinariamente scarsi. Dove una volta s’accumulavano alghe, rami d’albero e altri relitti, oggi s’accumula la plastica.

Vortice oceanico del Pacifico | © NOAA

Il vortice oceanico del Pacifico è il più inquinato del globo. Quando si parla del Great Pacific Garbage Patch in realtà si fa riferimento ad almeno due macroscopiche concentrazioni di plastica. Una di esse galleggia al largo del Giappone un’altra al largo della California. Molto al largo, almeno mille miglia nautiche. E non sarebbe neanche corretto chiamarle isole, visto che si compongono di miliardi di oggetti e di frammenti (di plastica) sparpagliati alla deriva. Sarebbe più corretto definirle zattere diffuse di plastica galleggiante, ma neanche l’italiano consente un neologismo all’altezza del problema.

La loro estensione è stata difficile da stimare, ma i dati più freschi suggeriscono che la plastica galleggiante tra le coste americane delle Hawaii e della California copra la bellezza di 1,6 milioni di chilometri quadrati. Tre volte la superficie della Francia, il paese più esteso dell’Unione Europea. In quell’inferno di flaconi, sacchetti, tappi, guarnizioni, accendini, reti abbandonate e microplastiche i ricercatori hanno scoperto qualcosa di inaspettato.

Sistema di boe per il contenimento dei rifiuti in mare | © theoceancleanup.com
Una sorpresa (neopelagica) dopo l’altra

Tra il novembre 2018 e il gennaio 2019 James Carlton, professore emerito di Scienze Marine al Williams College in Connecticut, e alcuni colleghi ricercatori si recano nella parte orientale del Great Pacific Garbage Patch, a metà strada tra le Hawaii e la California. Si occupa del viaggio la Ocean Voyages Institute, ONG di Sausalito, ridente cittadina sulla baia di San Francisco.

La ricerca coinvolgerà le più prestigiose università americane e canadesi, come lo Smithsonian Institute, lo Institute of Ocean Sciences, Fisheries & Oceans Canada e la Stanford University, citando solo i nomi più noti. I ricercatori raccolgono un centinaio di campioni di rifiuti di plastica. Sono contenuti in reti a maglie differenziate che issano a bordo. Scoprono che quel ciarpame contiene molte tracce di vita marina. La vera sorpresa è la presenza massiccia di specie costiere. Trovano loro tracce biologiche sul 70% dei detriti. Crostacei, anemoni e molluschi sono riusciti a sopravvivere migliaia di miglia lontano dal loro habitat naturale in un ambiente decisamente alieno.

Specie costiere colonizzano la plastica | © Ansa EPA | Noel Guevara | Greenpeace

Anche alcune specie pelagiche hanno colonizzato la plastica alla deriva, il 90% dei detriti conferma la loro presenza, ma le prove che continuano ad arrivare dai test di laboratorio hanno altre sorprese in serbo. Il numero di specie identificate è sproporzionato a favore delle specie costiere, l’80%, e ben due terzi dei crostacei identificati provengono dalle lontanissime rive. E ancora, trovano prove della riproduzione di crostacei e di idrozoi sul ben 31% dei campioni esaminati. Non si tratta, quindi, di naufraghi destinati ad estinguersi. Questi organismi sono in grado di riprodursi e prosperare in un ambiente che non ha nulla a che vedere con quello in cui si sono evoluti. I ricercatori definiscono queste specie come neopelagiche.

Granchio impigliato in reti di plastica | © NOAA

“Questo ha reimpostato il mio pensiero su come le specie costiere possano sopravvivere in un ambiente in cui non si sono evolute. Non sappiamo ancora come funzioni questo ecosistema di plastica, compreso ciò che mangiano le creature costiere o come interagiscono con le specie ittiche oceaniche.” James Carlton.

Per quanto si possa tifare per la vita marina questi organismi si stanno sviluppando in un ambiente sostanzialmente tossico. La plastica, se esposta al sale e agli ultravioletti, sviluppa sostanze simili alle diossine e le microplastiche. La vera brutta notizia è che molti di questi individui costieri sopravvivranno.

Il grande balzo

In tutti i mari del mondo si susseguono gli allarmi sulla presenza di invasori alieni. Nel Mediterraneo sono già decine le specie che hanno forzato il canale di Suez e che con il favore del riscaldamento dei mari hanno iniziato a prosperare a discapito dell’ecosistema autoctono. Nell’Egeo il pesce coniglio, un erbivoro, ha rasato migliaia di chilometri quadrati di alghe che fornivano habitat a molluschi, crostacei e avannotti.

Pesce leone | © Vittoria Amati

Nel Mar dei Caraibi è ancora aperta la caccia al pesce leone, o Pterois volitans, un carnivoro proveniente dall’Indopacifico che sta facendo strage sempre di larve, crostacei ed avannotti. Questo solo per citare i casi più noti. Le zattere di plastica diffusa, se si sono già trasformate in nursery, presto si trasformeranno in un ponte tra le due sponde del Pacifico. La preoccupazione è che gli organismi costieri giapponesi possano intraprendere la rotta nord del vortice oceanico e raggiungere le coste americane, e quelli americani la rotta sud, verso il Giappone o le Filippine. È solo una questione di tempo. Prevederne esattamente le conseguenze è ora impossibile ma le esperienze precedenti non sono una buona premessa. Nell’Egeo e nella regione dei Caraibi sono bastate due sole specie per compromettere gravemente habitat e biodiversità.

Monitorando la plastica

Il GPGP è una delle poche regioni marine con uno storico di dati relativamente buono, riporta uno studio del 2018. Ciò consente di comprendere le tendenze a lungo termine nell’inquinamento da plastica oceanica. Usando un nuovo modello matematico messo a punto su innumerevoli osservazioni aeree e marittime i ricercatori hanno stimato nel settore del Great Pacific Garbage Patch preso in esame galleggiano almeno 79.000 tonnellate di plastica. Da quattro a sedici volte il peso precedentemente stimato.

Oltre tre quarti della massa del GPGP sarebbe costituita da detriti più grandi di 5 cm e almeno il 46% è da reti da pesca. I risultati dello studio suggeriscono che l’inquinamento da plastica all’interno del GPGP sta aumentando esponenzialmente e ad un ritmo molto più veloce rispetto alle acque circostanti. Il consumo annuale globale di plastica, recita lo studio, oggi supera i 320 milioni di tonnellate, e nell’ultimo decennio si è prodotta più plastica che mai. Preoccupano l’enorme quantità prodotta come usa e getta e le reti da pesca smarrite o abbandonate note come reti fantasma. Inoltre, circa il 60% della plastica prodotta è meno densa dell’acqua di mare ed è quindi in grado di galleggiare e di frammentarsi per effetto del moto ondoso, dei venti, del sale e della luce solare. Sconosciuti invece i livelli di inquinamento da plastica negli strati di acque profonde e nei fondali marini al di sotto del GPGP, per i quali i ricercatori sollecitano più campionamenti.

Vie d’uscita

Lo studio si conclude qui, con una richiesta di ulteriori campionamenti e di dati satellitari. Intanto sulle terre emerse si fa un gran parlare di tecnologie capaci di rimuovere la plastica dal mare, ma nessun piano all’orizzonte. Ci sono piani consolidati e già iniziati per costruire ponti record sugli stretti e città nel deserto lunghe cento chilometri, ma ben poco (oltre a idee progettuali) per rimuovere la plastica. Intanto continuiamo a produrne, continuiamo ad aprire involucri e a gettarli nella spazzatura, quando va bene. Fiduciosi che qualcuno la distruggerà e che non finirà in mare.

 

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