Grandi Navigatori Portoghesi: da Enrico di Aviz a Bartolomeo Diaz

Il mare davanti alle coste del Portogallo è un enorme spazio vuoto, avaro di isole, ma non di burrasche. È il mare oltre le colonne d’Ercole, una distesa scura, colma d’inquietudine, alla quale un principe decide di affidare il destino di una nazione. Gli uomini formati dalla sua scuola daranno al mondo la forma che oggi conosciamo.

Nazarä, Portogallo | © Claudio Di Manao

Siamo agli inizi del XV secolo ed Enrico di Aviz, in seguito detto il Navigatore, ha davanti a sé un paese unificato sotto la corona della sua famiglia. L’ultima porzione del regno, l’Algarve è stata riconquistata da meno di due secoli e gli invasori arabi respinti a sud del Mediterraneo. Ma ora il Portogallo è chiuso tra l’Oceano Atlantico ed un vicino ostile e con idee espansionistiche, la Spagna. Gli arabi hanno lasciato molto, col loro passaggio; carte nautiche, avanzate concezioni matematiche ed astronomiche e strumenti di navigazione che hanno migliorato come nessun altro in Occidente. Ma poche notizie sulla via delle spezie, forza economica di un califfato immenso che si estendeva dall’India alla Penisola Iberica. La via terrestre, battuta da Marco Polo, era pericolosa e antieconomica. La via del mare, invece presentava un ostacolo: il continente africano.

Enrico, come un Federico II di Svevia dedito alla marineria, si circonda di astronomi, cartografi ed esperti navigatori provenienti da tutto il mondo conosciuto. Fonda una scuola, costruisce un osservatorio ed un cantiere navale a Sagres, nei pressi di Cabo San Vicente, il punto più meridionale del Portogallo. L’impresa dà i subito dei risultati: nel 1418 João Gonçalves Zarco e Tristão Vaz Teixeira raggiungono delle isole deserte a nord delle Canarie, queste ultime già assegnate alla Spagna dopo una lunga disputa che vede addirittura il Papa come arbitro. Le isole scoperte vengono battezzate Porto Santo e Madeira e colonizzate immediatamente. Ma l’obiettivo resta l’Africa: capire quanto si estende a Sud e se consente un passaggio verso Est.

Il Planisfero di Fra Mauro | © Claudio Di Manao
Fino alla fine del mondo

Il luogo geografico più meridionale di cui quel mondo ha notizia è Capo Bojador, nell’attuale Sahara Occidentale, uno sperone di deserto che gli arabi chiamano Abu Khatar, Padre dei Pericoli. E dei naufragi. Lì finisce il mondo delle mappe. Lì periscono le navi. Nebbia, tempeste e l’insidia dei bassi fondali fanno di Capo Bojador un luogo infernale, probabilmente abitato da mostri marini.

Enrico, come ogni persona dotta dell’epoca, sa perfettamente che il mondo è una sfera e non può avere una fine. La storia che Colombo abbia dimostrato per primo la sfericità della Terra è falsa, smentita da innumerevoli planisferi e documenti medievali. E da Dante. Enrico deve sapere se oltre quel maledetto sperone di deserto esiste un passaggio verso l’India e invia ben quindici spedizioni, tutte fallimentari.

Nel 1434 incarica Gil Eanes, suo scudiero e navigatore di Lagos, di cercare ancora una rotta per doppiare Capo Bojador. Eanes salpa, ma viene respinto dai venti contrari e da un mare impossibile. Ripara alle Canarie, dove cattura degli indigeni da portare in ‘regalo’ al suo principe. Enrico gli offre una seconda possibilità. Stavolta Eanes riesce nell’intento e superato il capo raggiunge un luogo imprecisato a sud, coglie delle rose selvatiche come prova del suo sbarco e torna a Sagres utilizzando la Volta do Mar, una tecnica sviluppata proprio dai portoghesi per andare a cercare il vento favorevole anche a centinaia di miglia fuori rotta. Sono i portoghesi ad aver intuito per primi che nell’emisfero nord i venti circolano in senso orario. Ne farà tesoro Colombo. Gil Eanes mette la prua verso nord-ovest, poi nord e infine verso est, compiendo un ampio cerchio in pieno Oceano Atlantico. Al suo ritorno viene accolto con tutti gli onori. Enrico si accorge che per superare quella sfida il Portogallo ha bisogno di navi più avanzate, navi in grado di risalire il vento, di resistere alla forza dell’oceano. E di sfuggire velocemente agli assalti dei pirati ottomani.

Astrolabi (del XV sec. a sinistra e del XVI sec. a destra) – Museo della Marina, Lisbona | © Claudio Di Manao
La caravella

Se gli arabi hanno arricchito l’astrolabio, strumento greco-bizantino, aggiungendo una scala graduata azimutale, i portoghesi prendono spunto dal qārib, un peschereccio arabo, per costruire navi adatte all’esplorazione. Le prime caravelle costruite dai cantieri di Sagres sono piccole imbarcazioni tra i 12 e i 18 metri di lunghezza e una stazza intorno alle 50 tonnellate. Sono munite di due o tre alberi e di vela latina, che consente di risalire parzialmente il vento.

Caravella portoghese

Pescano poco e questo le rende adatte a risalire i fiumi durante le esplorazioni. Siamo nel 1450 ed i navigatori portoghesi dispongono del mezzo navale più sofisticato al mondo per aprire una rotta sicura verso l’India e le spezie. Sarà a bordo di una caravella che quarant’anni dopo Colombo scoprirà le Americhe e ancora una caravella da 43 tonnellate porterà Alvise da Mosto, navigatore veneziano al servizio del Portogallo, a scoprire la foce del fiume Senegal e ancora più a sud, fin dentro il fiume Gambia. È il 1454, e con l’esplorazione dell’Africa non fioriscono solo scienza e tecnologia, ma anche il più vergognoso dei commerci: la tratta degli schiavi. Innumerevoli cronache riportano di equipaggi portoghesi catturati e venduti come schiavi dai musulmani e i cristiani li emulano. Sulla costa senegalese Alvise da Mosto cede alcuni cavalli e dei manufatti in legno, per un valore di circa 300 ducati, in cambio di 100 esseri umani. Lui e tanti altri esploratori non hanno alcuna considerazione delle popolazioni locali, dei non battezzati. I resoconti di Alvise da Mosto parlano di selvaggi, pagani non timorati di Dio, di cannibali. Da allora in poi il cannibalismo è la scusa più ricorrente quando si commettono atrocità nei confronti di genti meno sviluppate. Tuttavia i portoghesi non sono ancora intenzionati a colonizzare vasti territori in Africa, vogliono basi, vogliono pedine da infilare lungo una rotta ben precisa. Dal 1482 avrebbero segnato quei ‘loro’ punti in luoghi disabitati, e che avevano tutte le ragioni per essere disabitati, con i padrão: pilastri di pietra sormontati dallo stemma reale e da una croce.

Ma torniamo ad Alvise da Mosto. Nel suo secondo viaggio, mentre si dirige a Capo Verde, sulla costa del Senegal, viene sopraffatto da una tempesta che lo spinge al largo. Scopre così un arcipelago che battezzerà Capo Verde. Con lui c’è un certo Dinis Diaz, appartenente a una famiglia di navigatori.

Portolano – Museo della Marina , Lisbona | © Claudio Di Manao
Bartolomeo Diaz

Enrico il Navigatore muore nel 1460, senza veder realizzato il suo sogno, che era il sogno dell’Occidente dai tempi dei Greci, dei Macedoni e dei Romani: stabilire una via commerciale sicura col favoloso Oriente. Ma i suoi sforzi, le conoscenze e le tecnologie raccolte non vanno perdute e il progetto gli sopravvive. Ora però gli esploratori proseguono senza un altro punto di riferimento: la stella polare. Un riferimento che oltre una certa latitudine sparisce sotto l’orizzonte. Alvise da Mosto lo annota durante l’esplorazione del fiume Gambia e consiglia di affidarsi alla Croce del Sud, sulla quale esiste già una vasta letteratura che comprende anche la Divina Commedia, ma è tutta da verificare alla luce degli strumenti moderni. La bussola è diventata più piccola e più precisa, resta però uno strumento utile per stimare la rotta, uno strumento insufficiente per determinare la posizione. Gli astrolabi, invece, diventano sempre più raffinati.

I matematici di Enrico hanno prodotto calcoli più accurati ed i suoi cartografi hanno redatto i portolani, mappe nautiche che raffigurano le rose delle rotte. La stima della latitudine ha sempre meno segreti, resta il problema della longitudine. Nessuno riuscirà a risolverlo definitivamente fino al XVIII secolo: https://claudiodimanao-libri.blogspot.com/2013/10/longitudine-la-vera-storia-di-un-genio.html

I portoghesi continuano a costeggiare il continente africano, fino alla svolta verso Est. La svolta avviene nel 1488. Bartolomeo Diaz viene da una famiglia votata al mare e alle esplorazioni. Ha studiato matematica ed astronomia all’università di Lisbona. Come gli altri navigatori formati alle scuole volute da Enrico, sa che non è solo con il vento che si va in mare, ma soprattutto con gli astri e con il calcolo. Il suo momento arriva nell’ottobre del 1486, quando Giovanni II del Portogallo lo nomina capitano di una spedizione. Scopo principale della missione: misurare la reale estensione verso Sud delle coste africane e verificare se una rotta verso l’India sia possibile. Re Giovanni gli affida un altro compito apparentemente secondario: cercare il regno del Prete Gianni, un personaggio favoloso il cui mito ha attraversato i secoli e le culture. La leggenda, nata nel III secolo tra i cristiani Nestoriani in Siria, si riproduce in varie narrazioni fino al ciclo bretone, secondo il quale il sovrano sarebbe il custode del Santo Graal. I portoghesi sono convinti dell’esistenza del suo regno in Africa. Sperano di trovare un potente alleato cristiano nell’infinita guerra contro l’Islam.

Nel luglio del 1487 Bartolomeo Diaz salpa da Lisbona a capo di una flotta di tre navi: la sua caravella São Cristóvão, con al timone Pêro de Alenquer, la caravella São Pantaleão, ai comandi di João Infante e con Alvaro Martins al timone; infine una nave appoggio a vele quadre, della quale è andato perduto anche il nome, oltre allo scafo, comandata dal fratello di Bartolomeo, Pêro Diaz. Lungo il tragitto sosta a São Jorge da Mina, una fortezza portoghese sulla Costa d’Oro, oggi Ghana, dove aveva prestato servizio come militare. Carica acqua e altre provviste e prosegue verso la foce del Congo, poi ancora a sud. Giunto a Porto Alexandre, nell’odierna Angola, ordina alla nave appoggio di rimanere lì in attesa del ritorno delle caravelle ed affronta uno dei mari più pericolosi del mondo: nebbie, tempeste, bassi fondali e correnti impetuose sono il tratto caratteristico di queste acque. La costa è priva di fiumi e di sorgenti per centinaia di chilometri, finché l’8 dicembre del 1487 scopre un fiume ed una baia che battezza Golfo de Santa Maria da Conceicão, l’odierna Walvis Bay, in Namibia. Depone a terra uno dei suoi padrão e continua verso sud, ma avanza troppo lentamente. I venti e la fredda corrente del Benguela cercano di respingere a nord le sue caravelle. Siamo nell’emisfero australe, dove venti e correnti circolano in senso antiorario.

Grande Planisferio Policromo – Museo della Marina, Lisbona | © Claudio Di Manao
Tempesta o Volta do Mar?

Qui la narrazione riporta due storie diverse: una parla di una tempesta, l’altra (più plausibile) suggerisce che Bartolomeo Diaz abbia intrapreso un ultimo, disperato tentativo di cercare il vento oltre i confini del mondo. Si sa che ad un certo punto combatté tenacemente per tornare verso nord, verso il continente. Possiamo immaginare che, malgrado le certezze date dalla matematica e da navi ed equipaggi tra i migliori del mondo, ebbe paura. Per tredici giorni vedono solo mare. Poi la costa appare davanti a loro. Il 3 febbraio 1488 scoprono una baia, che verrà iscritta nelle mappe col nome di Bahia Formosa. Oggi Plettenberg Bay.

Bartolomeo Diaz non può saperlo, ma è giunto sulla costa orientale dell’Africa e l’unica cosa di cui è testimone è una terra che adesso si sviluppa verso est. Continua a costeggiare, per altri 500 chilometri, fino alla Baia di Algoa. È il 12 marzo e la São Cristóvão e la São Pantaleão si fermano lì. Lui vorrebbe proseguire ma gli equipaggi sono esausti, implorano di tornare in Portogallo. Sa che la costa sta gradualmente risalendo verso nord e, secondo le sue osservazioni , quello che hanno davanti non è un mare chiuso ma un altro oceano. Diaz e tutti gli altri valutano l’ampiezza delle onde, riconoscono quel respiro familiare, tipico di un mare gigantesco. Sa di aver ragione, a continuare. Quella che vede è una terra verde, solcata da corsi d’acqua e ricca di animali. Ma è da solo contro tutti. Sulla via del ritorno, nel maggio del 1488, scopre un promontorio. È il punto più a sud che abbia osservato. Lo battezza Capo delle Tempeste. Davanti all’Angola si ricongiunge con la nave appoggio capitanata da suo fratello. Scopre che l’equipaggio è stato decimato dalle scaramucce con i nativi e che la nave sta marcendo, i legni corrosi da una una strana larva d’insetto. Bruciano la nave sulla spiaggia e tornano verso Lisbona.

Purtroppo il rapporto ufficiale della spedizione è andato perduto. Nelle cronache non c’è traccia di onori e di festeggiamenti. Bartolomeo Diaz resta una figura quasi oscura, la cui storia è stata recuperata da frammenti di cronaca, da documenti redatti cinquanta anni dopo la sua impresa. Sappiamo che accompagnò Vasco da Gama nel 1497, ma fino alle isole di Capo Verde. Sappiamo che morirà per un naufragio, in una missione esplorativa al seguito di Pedro Alvarez Cabral, lo scopritore del Brasile. Poco altro. Forse re Giovanni II fu deluso dalla sua decisione di non proseguire. Forse non si fidò del suo resoconto sulla tempesta e dei pochi sforzi fatti per trovare l’inesistente regno del Prete Gianni. Forse Giovanni II non credeva fino in fondo ad una rotta verso l’India. Ma qui entriamo nel campo della fiction storica. Quello che sappiamo è che per ordine del re il nome del Capo delle Tempeste fu cambiato in Capo di Buona Speranza, come dire: speriamo sia davvero questa la punta estrema dell’Africa.

Capo di Buona Speranza, Sudafrica
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