Un modello economico per salvare i coralli

Una teoria del mercato azionario ha individuato le barriere coralline che possono farcela. Ed è lì che si concentreranno gli sforzi per la loro conservazione.

Mar Rosso | © Vittoria Amati
Coralli come azioni

A fine luglio del 2018 un gruppo internazionale di scienziati, coordinati dall’Istituto di Biologia Marina delle Hawaii, pubblica uno studio ispirato ad un concetto finanziario: la diversificazione del portafoglio. Gli investitori cui si rivolge lo studio sono coloro che reputano le barriere coralline dei beni irrinunciabili per le generazioni future. Quindi l’umanità stessa. L’idea non fa una piega neanche dal punto di vista economico: le barriere coralline fanno da culla al 25% delle specie oceaniche, rallentano l’erosione delle coste, creano sostentamento alimentare per circa mezzo miliardo di persone, e generano, secondo alcune stime, 375 miliardi di dollari d’indotto ogni anno. Ma le barriere, già colpite da un nemico duro da battere in poco tempo, come il riscaldamento degli oceani, subiscono altre pressioni che le indeboliscono ulteriormente. Solo nell’ultimo decennio, tra fenomeni di sbiancamento e indebolimento degli ecosistemi, ne sono andate perdute il 14%. A questo ritmo, si sono detti i ricercatori, le perderemo tutte prima che qualsiasi azione umana sortisca il suo effetto.

Sempre ammesso che gli umani intraprendano azioni consistenti: l’ultima Cop, la 26, non sembra essere andata in quella direzione. Ne abbiamo parlato qui. Adesso lo studio sta per essere messo in pratica sul campo da Vibrant Ocean Initiative e Wildlife Conservation Society, a sostegno delle barriere coralline che possono farcela.
“È urgentemente necessaria un’azione decisa sui cambiamenti climatici – si legge nell’introduzione dello studio originario – in particolare per le centinaia di milioni di persone che dipendono da risorse costiere vulnerabili.

Tuttavia, le condizioni incerte e in continua evoluzione associate al cambiamento climatico presentano sfide uniche per la conservazione. Non tenendo conto di condizioni mutevoli, ad esempio, le limitate risorse di conservazione potrebbero essere destinate a luoghi ad alto rischio di degrado dovuto al clima, che porterebbe a un fallimento della conservazione o a uno scarso ritorno sull’investimento. Coordinare gli sforzi di conservazione su scala globale, quindi, offre importanti opportunità per la pianificazione strategica che può ridurre il rischio di fallimento diffuso.”

Indonesia | © Vittoria Amati
Le risorse per la conservazione sono limitate

E le prospettive non sono rosee. Per questo i ricercatori hanno iniziato a studiare un modello che indichi dove concentrare gli sforzi.
Gli ecosistemi delle barriere coralline sono minacciati da fattori di stress locali, come il peggioramento della qualità dell’acqua e la pesca eccessiva, e da fattori di stress globali come il riscaldamento degli oceani e le tempeste. Ma anche ammesso che gli obiettivi dell’Accordo di Parigi venissero raggiunti, alcune stime non sono per niente ottimistiche: il 70-90% dei coralli del mondo potrebbe scomparire comunque. Tuttavia, i sopravvissuti saranno vitali per il ripopolamento una volta che le temperature della superficie dei mari torneranno stabili. A quel punto le barriere sane potranno fornire le larve ai sistemi collegati.

L’approccio degli scienziati è segno dei nostri tempi in cui modelli matematici e strategie elaborate all’interno di alcune discipline vengono impiegati in altri campi. Considerando le barriere al pari di un investimento, i ricercatori hanno attinto ad una teoria nota come il Modern Portfolio Theory, o Frontiera dei portafogli, una teoria elaborata dal premio Nobel Harry Markowitz nel 1952. Si basa su correlazioni positive e negative tra gli investimenti per ottimizzare le rendite. L’approccio MPT dovrebbe, in teoria, massimizzare i rendimenti ed escludere la possibilità di perdite catastrofiche. Applicata al futuro dei coralli si è scelto di individuare dei sistemi sui quali investire. Sistemi di reef che potrebbero sopravvivere, come biodiversità e patrimonio genetico, alla catastrofe. E dai quali ricominciare il ripopolamento una volta invertito il trend climatico.

Non stupisce che tra i maggiori finanziatori dello studio e della sua applicazione pratica figurino le fondazioni Bloomberg, Tiffany e famiglia Paul Allen, il compianto cofondatore di Microsoft, attori che s’intendono di finanza e capiscono perfettamente quel tipo di linguaggio. Il supporto scientifico arriva da NOAA, National Oceanic and Atmospheric Administration, con i suoi satelliti, i suoi database e la sua immensa capacità di calcolo, dalle Università del Queensland, delle Hawaii e altri enti.

Un rosa di cinquanta reef

È stata selezionata dai ricercatori partendo da alcuni criteri.
Il primo si basa sullo storico delle temperature. Sono state individuate delle aree le cui condizioni termiche nel periodo 1985-2017 non abbiano subito frequenti o eccessivi innalzamenti delle temperature. Il secondo criterio riguarda le previsioni sull’innalzamento delle temperature: seguendo alcuni modelli matematici sono stati indicati dei reef meno suscettibili a fenomeni come il Niño. Il terzo criterio, sempre legato al clima, ha preso in considerazione la frequenza delle tempeste; uragani, cicloni e tifoni di una certa intensità possono disintegrare in poche ore centinaia di anni di paziente lavoro dei coralli. Il quarto criterio si basa sullo storico recente delle temperature, con fenomeni di sbiancamento, il quinto sulla capacità di diffondere larve in un quadro di connettività. E su quest’ultimo punto non c’è bisogno di scomodare l’economia: un sistema isolato, recita Maxwell nella seconda legge della termodinamica, tende all’entropia.

Le aree identificate dai ricercatori sono state suddivise in unità bioclimatiche (BCU) ovvero sistemi di reef che si estendono per circa 500 km quadrati, dimensioni che garantiscono in ogni unità una vasta gamma di habitat e di biodiversità. Certe dimensioni, inoltre, offrono una ragionevole possibilità di sopravvivenza: anche se molte delle barriere verranno colpite dai cambiamenti climatici, alcune all’interno di ogni BCU potrebbero persistere.

Mappa delle 50 unità bioclimatiche (BCU) | © Society for Conservation Biology

Nelle BCU selezionate figurano barriere coralline di tutti gli oceani, ma spiccano i grandi esclusi, come il Great Barrier Reef, del quale è stata scelta una piccola porzione della Far North Section, le barriere delle Hawaii, per la loro scarsa connettività, e il Reef mesoamericano, che si stende dallo Yucatan all’Honduras.

Tra le zone più promettenti spiccano la regione di Raja Ampat, nel Western Papua e i reef dell’Africa Occidentale tra Kenia e Tanzania. In uno di questi ultimi reef la natura sembra aver giocato bene contro il riscaldamento globale. Si tratta di un sistema che si estende da Shimoni in Kenya fino a Dar es Salaam in Tanzania. Tutto il sistema beneficia di profonde faglie freatiche che defluiscono dal ghiacciaio del Kilimangiaro e dai monti Usambara. Le acque più fredde sembrano proteggere i coralli da eventi episodici di riscaldamento. La zona è stata protetta con divieto assoluto di pesca e di sviluppo costiero. Sempre sperando che il ghiacciaio del Kilimangiaro persista. Qualche giorno fa l’Organizzazione meteorologica mondiale ha previsto la sua scomparsa entro il 2040.

93 milioni di dollari stanziati

Vengono dall’iniziativa Vibrant Oceans, di Bloomberg Philanthropies.
L’investimento ha già sostenuto 26 organizzazioni in più di 40 paesi. Ma la protezione ha bisogno di continua sorveglianza e di azioni costanti. Non è solo il riscaldamento degli oceani a minacciare le barriere, a questa sfida si aggiungono pesca eccessiva, fertilizzanti, acque reflue che immettono sedimenti e inquinanti. Infine, lo sviluppo costiero. Lo sforzo, indicano i ricercatori, deve concentrarsi sulla mitigazione delle cause controllabili per aiutare le barriere coralline che potrebbero sopravvivere a non soccombere agli altri fattori di stress.
La Wildlife Conservation Society (WCS) ha accolto il progetto come un marinaio una rotta precisa: attendeva una indicazione chiara su dove radunare al meglio gli sforzi contro la minaccia del cambiamento climatico. Dal progetto il WCS ha già ricevuto finanziamenti per 18 milioni di dollari, da impiegare in 11 paesi, tra cui Fiji, Indonesia, Kenya, Filippine e Tanzania. I fondi verranno impiegati per aiutare le comunità locali a ridurre la pressione sugli ecosistemi.

Mar Rosso | © Vittoria Amati

Lo studio ha confrontato le ‘performance’ di innumerevoli barriere coralline ed ha scelto di salvare il salvabile. Una decisione forse ovvia, ma non facile. Nel salvabile sono state individuate barriere suscettibili ad ‘andamenti’ diversificati, in linea con i criteri attuati dai gestori dei fondi. Nelle proiezioni finanziarie, lo sappiamo bene tutti, la variabile impazzita più frequente siamo noi. Noi che compriamo e vendiamo, come dicono gli addetti, istericamente. Nel caso di Vibrant Oceans l’influenza umana su questo strano mercato è stata già valutata. Speriamo che a nessuno venga in mente di quotare in borsa le BCU, come è stato fatto con l’acqua e faranno presto con i Carbon credits. E speriamo ci siano, dopo l’apocalisse delle barriere coralline in grado di far loro un po’ di posto in mezzo all’alga.
Cito l’incipit del paragrafo conclusivo dello studio:
“Non c’è dubbio che il futuro delle barriere coralline sia in bilico. Gli investimenti nella protezione di qualsiasi portafoglio di barriere coralline saranno insufficienti se non si riducono le emissioni di carbonio.”

 

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