Corallo rosso, sangue antico

Saranno state le nove del mattino di tanto tempo fa, le dieci al massimo. Tornavano con delle sporte dalle quali spuntavano di rametti scuri. Avevano ancora le mute addosso, di quel neoprene lucido che ora vedi solo nei vecchi film di Bond. Sorridevano. Conoscevo uno di loro e gli domandai dove l’avessero trovati, quei rami. Eh… in una secca molto, molto profonda, mi disse. Non era roba per me, messaggio ricevuto. Avevo l’attrezzatura subacquea adatta.

© Vittoria Amati

All’epoca ci si immergeva col bi-bombola che consentiva una notevole scorta d’aria. La mia esperienza in acqua era vicina allo zero, ma avevo acquisito un pericoloso bagaglio teorico. Se mi avesse rivelato il luogo, mi sarei messo in pericolo. All’ambiente ancora non ci pensavo. Non avrei mai sparato ad un pesce, con delle bombole in spalla. Quello no, lo trovavo sleale. L’avevo fatto in apnea ed avevo scoperto che pescavo (per fortuna ero un pessimo killer) solo perché avevo bisogno di un motivo per starmene sott’acqua. Così diventai subacqueo. Nessuno ci pensava. il mare sembrava infinitamente ricco e generoso. Ci lamentavamo solo del petrolio a riva quando le navi pulivano le sentine, o le cisterne, al largo. Quando lo facevano te ne accorgevi subito.

2000 anni sull’orlo del collasso

Prima dei subacquei, per pescare il corallo, utilizzavano attrezzi devastanti. Uno di questi era la croce di S. Andrea: quattro assi di legno con dei rampini sulla sommità, e delle reti alle estremità dei bracci. Veniva calata da una o due barche sul fondale o lungo le pareti, dove i bracci s’infilavano sotto le tettoie ricche di quel corallo che si sviluppa a testa in giù, strappando di tutto.

Croce di Sant’Andrea – Il primo attrezzo utilizzato per la pesca del corallo | © Museo del Corallo di Alghero

Poi apparve l’Ingegno, un’evoluzione della croce. In origine un pesante palo con reticelle al seguito, più adatto ai pianori e ai fondali sabbiosi, poi pesante catena, sempre munita di reti. Erano strumenti di distruzione indiscriminata, oggi pesantemente sanzionati. Ma andava avanti così da un pezzo. Alcune antiche cronache suggeriscono che già al tempo dei Romani alcuni banchi di corallo erano già andati esauriti. A quali mezzi di distruzione ricorressero gli antichi per pescare il corallo è ancora un mistero. Per anni si pensò che si trattasse solo di pesca accidentale, di rametti che restavano impigliati nelle reti, ma i documenti e il ritrovamento di relitti greci e romani raccontano un’altra storia. Ci suggeriscono che la pesca del corallo rosso fosse una vera industria. Gli antichi popoli del mediterraneo conferivano al corallo rosso qualità apotropaiche connesse al sangue e alla vita. Polverizzato, veniva sparso per fertilizzare i campi. Talvolta servito in qualche bevanda afrodisiaca. Proteggeva dalla sfortuna e dai dolori della dentizione. Lavorato, diventava quasi essenzialmente un portafortuna e nella gioielleria spuntava nei diademi come lo scarabeo, l’amuleto più tipico dell’antico Egitto, mentre i Greci lo utilizzavano sin dall’età arcaica in forma grezza da esporre nei templi come offerta votiva o oggetto propiziatorio. Era apprezzato dai Fenici, dai Sumeri e perfino dai Celti, ma quasi ignorato dagli Etruschi. Poi, nella Roma imperiale, il corallo quasi scompare. Eppure, la risorsa era sfruttata fin quasi all’esaurimento. Lo raccontano, indirettamente, le cronache. Alcuni luoghi di raccolta scompaiono per essere sostituiti da segnalazioni di altri siti, come se alcuni banchi si fossero esauriti e si continuasse a cercarne di altri. I luoghi d’estrazione si spostano in Mar Rosso, presso i porti tolemaici di Berenice e di el Quseir, e intorno all’isola di Zabargad, ricca di miniere di olivina, una pietra simile allo smeraldo. I Romani cercavano lì il corallo perché quei siti erano sulla rotta verso l’India. Sì, l’India, c’erano arrivati prima di Vasco Da Gama. Mentre nel Mediterraneo il corallo rosso veniva per lo più usato (sicuramente con scarso successo) come medicinale o fertilizzante, in India era considerato un elemento prezioso per la gioielleria e veniva scambiato alla pari con le perle, cui gli indiani attribuivano lo stesso significato di fertilità. Due tesori del mare. Ma uno di essi è sangue.

Corallo rosso
Il sangue della gorgone, una storia eterna

Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita, rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù.

Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre, scrive Salustio ne Gli dei e il mondo. Il corallo è il sangue versato dalla gorgone Medusa figlia di Ceto, la balena che darà il nome ai cetacei, e di Forci, dio infero e primordiale del mare. Alcuni testi del mito greco dipingono Medusa come un mostro dalla nascita. Ovidio, nelle sue Metamorfosi, è di tutt’altro avviso. La descrive come una bellissima donna dalla chioma fluente. Poseidone, dio del mare, un tipo molto meno galante dell’incontinente Giove, la violenta nel tempio di Atena. Medusa, in una trasfigurazione catartica, vede i suoi capelli tramutarsi in serpenti e in pietra tramuterà chiunque sostenga il suo sguardo. In tutte le versioni Poseidone/Nettuno prende Medusa contro la sua volontà, ma Atena/Minerva punisce lei, Medusa. Tuttavia la narrazione di Ovidio è già un passo avanti rispetto alla misoginia dei Greci, verso un’elaborazione del mito che nei secoli porterà Medusa a diventare uno dei più potenti simboli del femminismo. A ragion veduta. Perseo, l’eroe, si offrirà di tagliarle la testa, sarà il suo regalo di nozze al re Polidette. Ma fatto il lavoro, sempre nella versione di Ovidio, Perseo s’impietosisce e rende soffice il terreno per la povera testa mozzata. I ramoscelli nati sott’acqua, a contatto col sangue, cristallizzano e prendono un colore purpureo. Alcune ninfe marine ne aggiungono altri e poi li raccolgono, per adornare i loro capelli. Tornando al loro elemento ne diffondono la semenza. Nasce così, dal sangue della gorgone violentata da un dio, punita da una dea, e infine uccisa da un eroe, il corallo rosso. E sempre da lei viene il nome che portano oggi i ventagli di mare. Dal collo mozzato nasce anche Pegaso, il cavallo alato. L’Universo sembra scusarsi con innumerevoli prodigi di riparazione. La bellezza, sosteneva Nietzsche, nasce dalla tragedia.

© Vittoria Amati

Come sempre, il mito si sovrappone a una credenza diffusa. Si pensava che il corallo cristallizzasse per mano dell’uomo. O una volta esposto all’aria. Questa convinzione, più che a una sensazione tattile, era forse legata a una capacità visiva assai ridotta. Immagino i primi pionieri, gente che non conosceva le maschere subacquee, procedere a tentoni in acque poco profonde. Scendevano assicurati alla barca da una cima legata in vita, e una pietra legata al collo. I famosi urinatores, i primi subacquei della storia (l’etimologia dell’urina è legata al liquido, non alle espulsioni vescicali) respiravano da otri pieni d’aria, ricavati da stomaci di animali. Avevano quasi tutti i timpani sfondati. Nel loro limitato raggio d’azione era più probabile che entrassero in contatto con coralli soffici della stessa forma, piuttosto che con il prezioso Corallium rubrum, una specie che (forse oggi, non ci è dato a sapere) predilige le grotte e le profondità. E la vera natura dei coralli rimase oscura per millenni. Già Plinio il Vecchio nutriva dei dubbi: per molte specie marine immaginava una Terza Natura in grado di trascendere l’animale e la pianta. Fu probabilmente il botanico irlandese John Ellis, membro della Royal Society e seguace del Linneo, ad intuire per primo il ruolo fondamentale dei polipi nella struttura dei coralli. Lo descrisse nel suo saggio Natural History of Celliferus Corallines, pubblicato nel 1775. I dubbi, tuttavia, persistevano. La sua osservazione gli costò una lunga disputa con il suo maestro, Linneo. Trenta anni dopo William Herschell, scopritore della radiazione infrarossa, osservando un corallo al microscopio, ancora sentiva il bisogno di confermare che il corallo non possedeva la struttura tipica della membrana cellulare delle piante. Ma questo, ai mercati mondiali, interessava poco.

John Ellis 1755
Storia di una risorsa globalizzata

Marco Polo, ne Il Milione, racconta della passione dei nomadi Mongoli per il corallo rosso, al quale attribuivano le virtù del fuoco, contrapposte a quelle del turchese, simbolo del cielo e dell’aria. Il viaggio del corallo verso le remote steppe orientali era iniziato più di mille anni prima, quando i Romani, partendo dall’Egitto, riempirono gli empori dei porti nello Yemen, dell’Arabia, dell’Oman, fino alla costa occidentale dell’India con la preziosa mercanzia. Da lì il sangue della gorgone raggiunge il Tibet e l’Afghanistan. E mentre in Occidente è da sempre oggetto di una lavorazione semplice, improntata a dare una forma predeterminata alla materia, in Cina vengono valorizzate le forme naturali dei rametti, dalle quali scultori e incisori traggono ispirazione per le loro opere. In Europa, dal medioevo al rinascimento diventa soprattutto materiale per bottoni di lusso e grani di rosari. I rametti sono considerati dei portafortuna. Talvolta paragonati alla Croce di Cristo. Proviene dall’antica tradizione scaramantica il cornetto rosso napoletano, che per portare fortuna deve essere necessariamente ricurvo e fatto di corallo. Amalfi, Genova, Marsiglia e Barcellona diventano i maggiori produttori in Occidente, ma ci voleva un caso fortuito, o forse un cornetto ben rodato, per trasformare Torre del Greco nella capitale mondiale della lavorazione del corallo.

Corallina, Torre del Greco

I pescatori campani, con le loro coralline (piccole imbarcazioni a vela latina) si spingevano fino in Sardegna e in Tunisia, ma nella loro zona nessuno aveva esperienza sulla sua lavorazione. Un giorno sbarcò a Torre del Greco un certo Paolo Bartolomeo Martin, incisore marsigliese di origini genovesi scappato dalla Francia dopo la Rivoluzione Francese. Nel 1805, ottenuta una concessione da Ferdinando di Borbone, aprì un laboratorio per la lavorazione del corallo. Divenne presto una fabbrica, che cinque anni dopo contava già duecento dipendenti. Il mercato era così in espansione che molti di loro, acquisita la necessaria maestria, si misero in proprio. Ma la fortuna di Torre del Greco non finisce con ‘o Marsigliese, così chiamavano Paolo Bartolomeo Martin. Nel 1888 Bartolomeo Mazza e Luigi Gentile, due commercianti torresi, decidono di andare ad acquistare il corallo in Giappone espandendo la gamma con il Corallium elatius, ovvero il corallo pelle d’angelo, d’un rosa così tenue che ricorda l’incarnato dei putti nei dipinti barocchi. Corallo rosso e corallo rosa si diffondono nel mondo, ma cominciano a sparire dalle quote più accessibili in natura, e i vari Ingegni e Croci di sant’Andrea non bastano più a rifornire il mercato globale. A profondità meno proibitive si trova ancora nelle grotte, soprattutto in Sardegna, ma per prelevarlo ci vuole qualcuno disposto ad andare sott’acqua: un palombaro. Se prima è stato l’ambiente marino a soffrire della sete di corallo di superficie, il tributo successivo verrà pagato anche dagli umani che lo cercavano.

Corallina, Torre del Greco | © massagioconda.it
La terribile malattia dei corallari

Ne ho conosciuti. Uno, con il tatuaggio sbiadito della Legione Straniera sul braccio, zoppicava un po’, altri parlavano come quelli che hanno appena avuto un ictus. Era un mestiere da matti, soprattutto per come era condotto a quei tempi: in acqua da soli, con poche basi. C’è poco da scherzare con le profondità estreme, soprattutto se affrontate con metodi empirici. Si può finire per sempre su una sedia a rotelle. O all’altro mondo. Mi ricordavano i cercatori d’oro del Klondike, che finivano spesso con i piedi amputati per i geloni. Embolia è sicuramente uno dei termini più abusati dai media, quando si parla di incidenti subacquei, ma con i corallari di un tempo ci poteva stare eccome. Nella maggior parte dei casi descritti dai media come embolia si tratta della formazione di impercettibili bolle d’azoto, o di un altro gas inerte, all’interno dei tessuti umani. Le malattie da decompressione si manifestano se si eccedono velocità di risalita (che include la mancata sosta di decompressione) o tempi di permanenza a date profondità, o la combinazione dei due fattori. L’EGA, l’embolia gassosa arteriosa, invece descrive esclusivamente la formazione di una o più bolle nelle arterie. Con conseguenze che chiunque può immaginare. È estremamente improbabile che si manifesti nei subacquei ricreativi, visto che un fattore determinante è la profondità. Tra i vecchi subacquei la parola embolia è quasi sinonimo di corallaro. Negli anni ‘70 il corallo era già virtualmente sparito dalle quote sopra i 60 metri e toccava cercarlo a 80 o anche 100 metri. Scendevano con metodi empirici. Quelli di loro che avevano capito che l’aria era mortalmente tossica oltre i 66 metri, riempivano bombole con miscele contenenti elio. I computer subacquei ancora non esistevano, e l’effetto dei gas sull’organismo nelle immersioni profonde era oggetto di studio presso le marine militari e le compagnie che operavano sulle piattaforme. Molti risultati erano mantenuti segreti. I vecchi corallari s’immergevano con strumenti rudimentali, incapaci di segnalare loro la velocità con cui risalivano. Si arrangiavano agguantando gli ultimi metri della cima di risalita coi pugni, spanna a spanna, una mano sopra l’altra, a contatto. Si regolavano così, risalendo a dieci, quindici centimetri al secondo, circa sei-nove metri al minuto, che era già la metà della velocità suggerita dalle tabelle allora in vigore. Ma a volte la precauzione non era sufficiente. Quello che per qualsiasi altro subacqueo era inaccettabile, la formazione di grosse bolle nell’organismo, per loro era un rischio del mestiere. Una sorta di dazio da pagare la mare. Sul corallo raccolto in quegli anni non c’erano solo le sofferenze dell’ambiente ma anche quelle di tante vite, trascinate in condizioni invalidanti.

Frammento lavorato di corallo rosso
A che punto siamo

Oggi, con cognizioni e strumenti assai più avanzati, un subacqueo che abbia sostato per una manciata di minuti a 100 metri di profondità va in ogni caso incontro a più soste di decompressione che possono durare anche parecchie ore. Deve ricorrere a miscele speciali, perché l’azoto e l’ossigeno che compongono l’aria di superficie a profondità elevate potrebbero ucciderlo, deve ricorrere ad una pianificazione chirurgica dell’immersione e della sua logistica. In Italia e nella maggior parte dei paesi del mondo, la pesca del corallo è affidata esclusivamente ai subacquei, che possono selezionare i rametti cogliendo solo quelli che si sono sviluppati, lasciando crescere gli altri. Ma soprattutto senza rasare il fondale con pali e catene. Vari stati e regioni regolano dimensioni, quantità e profondità dei prelievi. Le licenze, rigorosamente limitate, possono essere ottenute solo da personale qualificato e ben attrezzato, e vengono rilasciate dietro il pagamento di migliaia di euro. Se negli anni ’70 se ne pescavano 450 tonnellate l’anno, oggi se ne pescano soltanto 40t. Il Corallium Rubrum è inserito nell’allegato V della Direttiva Habitat (specie soggette a gestione) insieme al lupo e al gambero di fiume, e nell’allegato III della Convenzione di Berna (Convenzione sulla Conservazione della vita selvatica e degli Habitat naturali in Europa) nell’allegato III del Protocollo SPA/BIO della Convenzione di Barcellona. Lo sfruttamento a fini commerciali è regolamentato sia da raccomandazioni a livello del mediterraneo (GFCM) sia da decreti Regionali. Nonostante ciò, la specie è sulla lista rossa IUCN con uno stato di conservazione Endangered. Le motivazioni vanno dal rapido declino (superiore del 50% negli ultimi 50 anni) al bracconaggio, pesca illegale, pesca coi ROV, accrescimento lento e cambiamenti climatici. Se fino a venti anni fa la specie, fa notare la IUCN, era comune lungo tutta la costa ionica, oggi le popolazioni sono rarefatte. A Ustica, dove fino a pochi anni fa il rinvenimento di frammenti di corallo rosso lungo le spiagge era relativamente comune, non si osservano più fenomeni di spiaggiamento, mentre nel Golfo di Napoli le colonie sono soggette a moria per torbidità dell’acqua e fenomeni geotermici. Ma la FAO inserisce il mestiere di corallaro, e la filiera che segue il prelievo di corallo, tra le attività da salvare e regolamentare in quanto parte dell’ecosistema ambientale, economico e culturale. E c’è anche una proposta presso l’Unesco di inserire gli artigiani del corallo di Torre del Greco tra i patrimoni dell’umanità. George Monbiot, nel suo capolavoro Rewilding, ci ha portato numerosi esempi per cui l’aver disegnato una geografia sostenibile inclusiva delle attività umane tradizionali nell’ecosistema è stata molto spesso una ricetta deviante.

Presepe di corallo, opera di Platimiro Fiorenza, Museo Diocesano di Catania | © livesicilia.it

All’aeroporto di Capodichino, sui banconi, il corallo rosso è più diffuso delle tazzuliell’e café. Già all’arrivo, ti chiariscono subito che il corallo, squisitamente lavorato come in nessun altro luogo al mondo, è una sorta di orgoglio locale, pari a tante altre tradizioni. E mentre bevo un caffè, il migliore del mondo, non so perché penso alle pellicce. Ho sempre sostenuto che è meglio comprare una pelliccia usata, magari da una signora anziana che non ne comprerà altre, che comprare capi in microfibra. Non per il confort e la sciccheria, ma per la sostenibilità. Molti animali sono stati già uccisi, rendiamo loro un omaggio duraturo. Soprattutto non compriamone mai più di nuove. E subito penso al corallo sostenibile, al limite della sopravvivenza da secoli, e mi viene in mente il corallo usato. Allora penso al sangue della gorgone, alle devastazioni di epoca romana, alle bolle nel sangue dei vecchi corallari. Il fatto che sia perfettamente inutile non porta alcun vantaggio al corallo. La maggior parte degli oggetti di pregio sono inutili.

 

Il corallo rosso nell’antichità.

Dispute sulla natura del corallo

Conservazione

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