La Grande barriera potrebbe finire tra i patrimoni Unesco in pericolo, ma l’Australia non ci sta

Alla fine di luglio l’Unesco dovrà decidere se inserire o meno la Grande barriera corallina nella lista dei patrimoni ‘minacciati’, ma l’Australia non ci sta: i suoi leader parlano di ricatto e di interferenze politiche. Le tensioni con l’Unesco e con altri paesi, sulla Grande barriera corallina come sugli obiettivi climatici non sono una novità, ma una questione di vecchia data. Una questione legata a doppio filo alla politica sulle emissioni. E alle lobby.

La Grande barriera corallina, Australia | © cntraveler
Errori di valutazione

Le prime avvisaglie di una certa deriva energetica spuntano nel 2014. In una intervista rilasciata alla ABC la ministra degli esteri Julie Bishop dichiara che la Grande barriera non è in pericolo. Pochi giorni prima Barack Obama aveva affermato esattamente il contrario. Il balletto di dichiarazioni avviene su una musica che conosciamo: chi non vuole impegnarsi a ridurre le emissioni cerca di sminuire il problema. Proprio in quei giorni – giorni scuri, li definisce Tim Flannery su The Guardian – l’Australia sta avviando un progetto ciclopico: la Carmichael mine. Un progetto che addirittura RollingStone, a firma di Jeff Goodell, definisce il ‘progetto energetico più insano del mondo’. Si tratta di estrarre carbone dal Galilee Basin, nel cuore del Queensland, e di trasportarlo con una ferrovia verso un terminale per le navi cargo all’esterno della Grande barriera. Con tutti i rischi che comportano il carbone stesso, la inevitabile manomissione del reef e un intenso traffico navale. Il progetto va avanti nonostante le ripetute proteste e i blocchi stradali da parte delle comunità aborigene, che si vedono strappare o denaturalizzare i loro territori, e altre contestazioni in Germania dove Extincion Rebellion nel 2020 cerca di indurre la Siemens, senza successo, a non fornire tecnologia. Le autorità australiane si difendono dicendo che il carbone è della migliore qualità, e che ha il miglior rapporto emissioni/calorie a livello mondiale. Insiste sul fatto che il terminale è preesistente e va solo ampliato, insiste che quel settore di barriera è ‘ormai andato’ per colpa dei fertilizzanti e di una precedente perdita di petrolio. Creerà anche 65.000 posti di lavoro.  Amen.

Prime avvisaglie di un’estinzione di massa

Torniamo indietro nel tempo, al 2016. In quell’anno si verifica il primo mass-bleaching, il primo sbiancamento di massa dei coralli mai registrato. Per chi fosse a digiuno: lo sbiancamento non è un problema estetico, ma è la conseguenza dello stress dei coralli per le temperature troppo elevate. In questa situazione i coralli – strutture calcaree costruite da miriadi di polipi – espellono le alghe simbionti. Sfortunatamente le alghe forniscono zuccheri ai polipi e se i problemi persistono non fanno più ritorno dopo l’espulsione. A quel punto le colonie s’indeboliscono, muoiono e poi si disintegrano. Vale la pena ricordare che per via della loro struttura tridimensionale, i coralli sono lo habitat di almeno il 25% delle specie marine conosciute. Va anche ricordato che la NOAA (National Oceanic Atmospheric Agency) ha stimato che le barriere coralline globali generano un indotto, tra pesca e turismo, di circa 9.800 miliardi di dollari l’anno. E che altre fonti attendibili, come le Nazioni Unite per esempio, stimano che dalle barriere coralline globali dipende il sostentamento di mezzo miliardo di persone. Alla faccia dei 65.000 posti di lavoro.

Esteso sbiancamento dei coralli nella regione di Kimberley, Australia | © Morane Le Nohaic, ARC Centre of Excellence for Coral Reef Studies
Chasing coral documenta il dramma

L’evoluzione del mass-bleaching è stata magistralmente filmata, e commentata dai maggiori esperti mondiali, in Chasing Coral un’opera cinematografica magnifica e struggente. Ne abbiamo parlato qui: https://www.imperialbulldog.com/2017/07/15/chasing-coral-le-barriere-lasciano-senza-fiato/ . Dopo quell’episodio sparisce quasi completamente la Far North Section, quella più vicino all’equatore e più ricca di biodiversità perché ad un crocevia tra il Pacifico settentrionale e meridionale e relativamente prossimo all’oceano Indiano. La distruzione striscia per almeno 700 chilometri di reef verso sud, fino all’altezza di Cairns. Ma non è l’ultimo colpo. Nel 2017, un altro evento di sbiancamento di massa. Stavolta il ‘bleaching’ arriva all’altezza di Townsville, altri 300 km a sud di Cairns. E poi colpisce ancora, di nuovo, e ancora più forte nel 2020. Strisciando sempre più a sud fa sparire innumerevoli reef interni, dove i bassi fondali diventano bollenti. È l’evento più devastante dei tre, il più grande mai registrato sul pianeta. Il terzo in meno di cinque anni.

La proposta dell’Unesco e le sue differenti letture

Quando un patrimonio dell’umanità viene inserito nella lista dei siti minacciati le reazioni dei paesi possono essere diverse, ma di solito il rifiuto – secondo uno studio pubblicato su Nature – prevale. Paesi come il Belize, ad esempio, vi hanno colto l’opportunità di attirare sul problema l’attenzione internazionale e la possibilità di avvalersi, tra strumenti e consulenze, di esperti e tecnologie a livello mondiale. Il Belize per proteggere la sua barriera – la seconda al mondo per estensione dopo quella australiana – ha fermato lo sviluppo edilizio sulla costa, ha messo sotto controllo la pesca illegale e sospeso le trivellazioni, uscendo dall’incubo in pochi anni. Non ha fatto altro, nella sostanza, che attuare le direttive delle Nazioni Unite. Di tutt’altro avviso è l’Australia, che legge nella proposta una minaccia al turismo, un ricatto e una pericolosa ingerenza politica da parte di una grande potenza straniera.

Eventi di sbiancamento della Grande barriera corallina
Complotti stranieri e ribaltoni sospetti

Il riferimento alla Cina, che viene riportata apertamente da alcune testate e non dalla classe dirigente, è ovvio. La Cina ospiterà la prossima riunione dell’Unesco e avrà la presidenza. Fino ad una settimana prima della notifica l’Unesco aveva comunicato che non avrebbe inserito la Grande barriera corallina nella lista dei siti minacciati. Se c’era qualcosa di strano, semmai, stava nel non averla inserita prima, ma andiamo avanti: l’Australia, oltre al complotto straniero, legge nella scelta dell’Unesco una forte pressione sulle sue politiche energetiche. Un tipo di pressione che non s’era mai visto in passato.

Certo, l’Australia non può essere considerata responsabile della crisi climatica, causa prima della distruzione dei coralli, ma è anche vero che il clima non è una questione di confini, è una questione di cooperazione sulle tabelle di marcia. E l’atteggiamento dell’Australia rispetto alle emissioni è, per molti versi, di rifiuto. La sua politica energetica resta ferma al 2015, all’anno precedente il primo degli eventi catastrofici sulla Grande barriera, con una tabella di marcia giudicata non efficace dai paesi firmatari dell’accordo sul clima. A tutt’oggi l’Australia, fa notare l’Unesco, non ha neanche presentato un piano per il 2030.

Una politica attiva aggressiva

Senza mezzi termini il ministro delle risorse australiano accusa Greenpeace e altri gruppi ‘verdi’ di voler azzoppare l’industria fossile australiana, ma anche i laburisti si aggiungono al coro, parlando del gas come ‘risorsa essenziale’ per l’Australia in termini di posti di lavoro, ricalcando le affermazioni del primo ministro, Scott Morrison, che definisce il gas come ‘principale contribuente’ al benessere australiano. Un coro dal quale si distaccano con forza solo i Verdi.

Dopo aver bollato come ‘scioccante’ (appalling) la notizia ricevuta dall’Unesco, Scott Morrison non ci sta e il governo comincia a mettere giù tante ragioni. L’elenco inizia con la mancata visita degli esperti dell’Unesco – come se ci fosse bisogno di mandare qualcuno a valutare ‘in situ’, quando dati vengono acquisiti essenzialmente dai satelliti – poi passa al fatto che la Grande barriera non è stata ‘tutta’ danneggiata, ma solo in certi settori – come dire che il Colosseo, per un dissesto idrogeologico, è crollato solo da un lato. Poi cita il cambiamento di idea dell’Unesco, avvenuto in una sola settimana, agitando, ma solo a mezzo stampa, l’ombra della Cina.

Infine l’Australia elenca la sua maggior preoccupazione, sostenuta dall’intera industria: la perdita del turismo.

Facciamo lobby

Chi vorrebbe visitare un sito minacciato? È questa la domanda retorica del governo.

Io, per esempio, vorrei vederlo immediatamente, un sito Unesco minacciato, vorrei vederlo prima che scompaia, ma capisco di non far parte della maggioranza. Semmai di una minoranza i cui membri si precipiterebbero come volontari.

In realtà la preoccupazione maggiore dell’Australia è un’altra. Si annida nell’unico messaggio che ha recepito fino in fondo: una scossa, uno stimolo al cambiamento delle sue politiche energetiche. La reazione è stata raccogliere gli ambasciatori di 11 paesi presso l’Unesco per sollecitare una revisione della proposta. Tra i firmatari della lettera, oltre all’Australia, ci sono: Regno Unito e Canada (già, il Commonwealth, ma intanto la Nuova Zelanda, a guida Jacinda Arden, s’è defilata), Spagna, Ungheria, Tailandia, Indonesia, Turchia, la carbonifera Polonia, poi il Bangladesh, le Filippine e infine la Francia, l’unica vera sorpresa.

L’Unesco rigetta la mozione e risponde così:

“Sono 21 le barriere coralline iscritte nel patrimonio dell’Unesco, ma nessuna ha sofferto come la Grande barriera”

Grande barriera corallina
Un controverso retaggio ecologico

Quando negli Stati Uniti, nel 1872, veniva creato il Parco di Yellowstone e venti anni dopo John Muir fondava il Sierra Club – il primo think- tank ambientalista della storia – l’Australia, non aveva ancora la sua costituzione come stato federale. L’Australia, paese giovanissimo e dagli immensi spazi totalmente disabitati, dotato di vaste aree ancora allo stato naturale, è anche un paese che fatica a fare i conti col suo passato, con vecchie e nuove impronte sull’ambiente. È un paese che ha insistito a piantare colture alloctone su terreni poco adatti, su grandi pianure emerse che un tempo erano lagune, e quindi ricche di sale, è un paese prossimo al collasso delle sue riserve idriche dopo la loro privatizzazione. È il paese della proverbiale introduzione di pecore e conigli con esiti devastanti. Cento anni di differenza, tra i due paesi, sul cammino della Storia e quasi altrettanti sulla consapevolezza ecologica, ma la stessa visione illudente, che nasce proprio nei grandi spazi: quella di un ambiente ‘too big too fail’.

Petrolio, carbone e gas

Se l’economia americana moderna si è avviluppata intorno al petrolio e alle sue lobby, quella australiana si consolida caparbiamente intorno allo sfruttamento del sottosuolo. Negazionismo climatico e andirivieni di personaggi tra politica e industria strategica – le cosiddette porte girevoli – anche in Australia fanno parte del bagaglio di interferenze tipiche di questi settori. Se negli USA ricordiamo ancora con un certo sgomento la nomina da parte di Trump di Rex Tillerson, ex CEO della Exxon, come Segretario di Stato, l’Australia non è immune a questo genere di passaggi clamorosi, soprattutto in senso inverso: politici che raggiungono i vertici delle corporates a fine carriera.

Coralli morti a nord della Grande barriera colallina | © Greg Torda, ARC Centre of Excellence for Coral Reef Studies
Una RCP per la Grande barriera corallina

Il governo ha stanziato mezzo miliardo di AU$, quando ce ne vorrebbero otto di miliardi, per ripristinare i reef distrutti, per selezionare e trapiantare specie più resistenti alle alte temperature. L’Unesco farà la sua parte con https://whc.unesco.org/en/reefresilience/ . E gli australiani, davanti al disfacimento della più grande opera della natura, non sono rimasti a guardare. Università, organizzazioni ambientaliste e centri subacquei hanno diffuso una ‘chiamata alle armi’ per i volontari senza precedenti. Ne abbiamo scritto qui: https://www.imperialbulldog.com/2020/10/29/great-barrier-reef-riusciranno-i-volontari-a-restaurare-la-piu-grande-opera-della-natura/

Davanti a queste risorse l’Australia, secondo il mio punto di vista, sbaglia clamorosamente l’approccio: un sito in pericolo come il GBR, Great Barrier Reef, attirerebbe una massa ancora più consistente di volontari, volontari paganti. E nella destinazione mondiale numero uno dei backpacker nessuno ci venga a dire che si tratterebbe solo di gente che spende poco.

L’insostenibile mancanza di peso delle Nazioni Unite

L’Unesco, come la FAO e l’OMS, tutte organizzazioni in seno all’ONU, hanno un potere limitatissimo da screditare all’occorrenza. Basta citare ingerenze da parte del ‘villain’ di turno, come è successo con l’OMS. La Cina incarna tutte le caratteristiche del ruolo. Tranne una. A differenza degli Stati Uniti la Cina ha un gigantesco problema di qualità dell’aria. Soffre per la siccità, desertificazione e dissesto idrogeologico su una scala neanche paragonabile a quelle di altri paesi. Con in più una visione centrale: i danni all’agricoltura sono un problema di Stato, non di un settore dell’economia privata. È quindi legittimo pensare che l’impegno della Cina nella causa climatica sia genuino, anche se palesemente strumentale nell’intento di farsi perdonare innumerevoli altre magagne. Ma Cina o non Cina, almeno in questa vicenda sembra che l’unica arma in possesso delle Nazioni Unite sia quella di dichiarare in pericolo un sito del World Heritage per suscitare una sorta di lesa maestà nei paesi che non ascoltano le sue direttive.

Per chi suona la campana

Tra pochi giorni sapremo come andrà a finire questa faccenda che gira intorno ad una mera definizione: in pericolo o non in pericolo. Possiamo dormire sereni perché qualunque sia il risultato la questione non cambierà: l’Australia continuerà con la sua politica energetica da Davide contro Golia. Lo farà senza poter citare l’India, grande produttore e consumatore di carbone, dato che è Adani, una società indiana, quella che sfrutterà la famosa miniera nel Galilee Basin, né potrà spingersi a biasimare apertamente la Cina sulla quale non ha prove se non l’intenzione di cambiare registro a patto che lo facciano tutti, India per prima. Trump, altro carbonaio, per fortuna è fuori gioco. Ma questo ennesimo balletto ci ricorda come la musica sia identica un po’ ovunque. Più o meno agli antipodi della Grande barriera l’Unione Europea ha appena stralciato dai fondi del Recovery un’idea balzana come quella sull’idrogeno ‘blu’ estratto dal metano, progetto presentato dall’italianissima ENI.

Grande barriera corallina | © Marco Brivio

C’è una campana che suona in Australia, ma si sente anche quassù.

È la stessa campana.

Suona per tutti noi.

 

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