Plasticosi – Uccelli marini ammalati di plastica

Quanto è davvero pericolosa la plastica? Ce lo racconta uno studio australiano sugli uccelli marini, aprendo le porte a ipotesi inquietanti.

Laysan albatross | Midway Island, 2012 | © Chris Jordan
2009, Midway

Tutto inizia, se vogliamo, in quell’anno. Le immagini scioccanti di Chris Jordan, fotografo di Seattle, fanno il giro del mondo e il mondo, o almeno chi nel mondo presta attenzione allo stato di salute della natura, si accorge che c’è un problema, un problema grave. Sono immagini di carcasse di uccelli marini, per lo più albatri, con gli stomaci pieni di frammenti (ma anche di oggetti interi), di plastica.

La maggior parte delle persone si sarebbe aspettata immagini del genere provenire da spiagge segnate dal degrado, ma quelle foto vengono da Midway, un atollo in mezzo al Pacifico a metà strada tra Giappone e Stati Uniti. Un’area protetta, tra le altre cose. È la misura di quanto la plastica sia capace di viaggiare e di insidiare gli angoli più remoti degli oceani. E di uccidere. Per troppo tempo si è creduto che la plastica fosse un materiale completamente inerte. Si era anche ipotizzato che non potesse alterare troppo gli equilibri chimici negli ecosistemi. Abbiamo poi scoperto che soffocava coralli, delfini, balene, tartarughe e uccelli che scambiavano la plastica per cibo. Più recentemente si è scoperto che i residui delle microfibre, così piccoli da poter saltare ogni tipo di filtro, soffocano le larve di specie acquatiche, specie cruciali per gli ecosistemi. Dieci anni dopo le prime scioccanti foto di Chris Jordan, sempre nella regione del Pacifico un gruppo di ricercatori intuisce che la plastica porta anche ad una forma di intossicazione alimentare molto grave negli uccelli marini.

2019, Lord Howe Island, Australia

Quando si parla di plastica le notizie peggiori, gli shock, vengono quasi sempre da luoghi remoti che consideriamo paradisi incontaminati. Uno di questi è L’isola di Lord Howe, un sito Unesco a 320 miglia nautiche dalle coste del Queensland, nel Mare di Tasman. È così isolata dalle altre terre emerse che può contare un numero spropositato di specie endemiche. Laggiù alcuni ricercatori dell’Istituto per gli studi marini ed antartici dell’Università Australiana di Tasmania decidono di approfondire gli effetti non letali della plastica sugli uccelli marini.

“Abbiamo deciso di trattarli come esseri umani e di fare un emocromo per scoprire come stavano”

Jennifer Lavers, capo ricercatore.

Albatross | King Island | Australia | © parks.tas.gov.au

Il gruppo di scienziati volge lo sguardo ad una specie in particolare: la berta, Ardenna carneipes, un uccello marino la cui popolazione è diminuita del 29% negli ultimi anni e che sembra particolarmente esposto all’ingestione accidentale di plastica. Scoprono che le berte non godono di ottima salute. Molti individui sono suscettibili a problemi renali, hanno tassi di colesterolo eccessivi nel sangue, e presentano una massa corporea ed apertura alare ridotte, ridotte sono anche le dimensioni del becco. Le berte sono soltanto una delle 2249 specie marine che subiscono danni per l’ingestione di plastica. Nel 1995 le specie note che subivano questo tipo d’impatto erano solo 263. Purtroppo, il database scientifico langue e gli studi già effettuati sull’esposizione degli organismi alla plastica sono stati tutti condotti in laboratori. Nei laboratori vengono usati solo alcuni tipi di plastica i cui frammenti non sono mai stati esposti agli agenti naturali come il sale e gli ultravioletti, né ai patogeni e alle tossine che la plastica tende ad accumulare se rilasciata nell’ambiente. I ricercatori capiscono che li aspetta una nuova sfida ed hanno una buona scusa per approfondire.

“Gli uccelli marini sono il canarino nella miniera di carbone per la salute degli oceani”

Jennifer Lavers.

Il capo ricercatore Jennifer Lavers studia le berte su Lord Howe Island | Australia | © Supplied | Paul Sharp
2023, Hobart, Tasmania

All’Istituto per gli studi marini ed antartici si decide di andare a fondo e di studiare l’apparato digerente delle berte prelevate da Lord Howe Island, il loro ambiente naturale. Raccolgono esemplari morti e si servono di tecniche poco invasive per esaminare il contenuto degli stomaci negli esemplari vivi. Si accorgono che l’apparato digerente di questi uccelli è segnato da tessuto cicatriziale, una condizione che in medicina (anche umana) si chiama fibrosi. La condizione può verificarsi in molti tipi di tessuto a seguito di ferite o a seguito di una prolungata infiammazione. La fibrosi è la risposta naturale di alcuni organi ad una forma di aggressione ma se estesa può comprometterne la loro funzionalità. Nel caso dell’apparato digerente può ridurre l’assimilazione delle sostanze nutritive contenute nei cibi e compromettere i processi digestivi. La plastica è il maggior indiziato ma per una sentenza definitiva devono escludere un altro elemento: la pietra pomice. Lord Howe è un’isola di origine vulcanica, la cima di un cono che sorge dalle profondità oceaniche. Vere e proprie zattere di pietra pomice frammentata sono parte del suo paesaggio marino. Durante la ricerca gli scienziati hanno la conferma: non è la pietra pomice la causa delle fibrosi, è la plastica. La plastica danneggia gli stomaci degli uccelli marini in vari modi che vanno dalle microferite alle infiammazioni.

“La presenza di plastica è altamente associata alla diffusa formazione di tessuto cicatriziale e ad ampi cambiamenti e persino alla perdita della struttura del tessuto all’interno della mucosa e della sottomucosa. Inoltre, nonostante la presenza nel tratto gastrointestinale di altri elementi indigeribili presenti in natura, come la pomice, quest’ultima non ha causato cicatrici simili. Ciò evidenzia le proprietà patologiche uniche della plastica e solleva preoccupazioni per altre specie colpite dalla sua ingestione. Inoltre, l’estensione e la gravità della fibrosi documentata in questo studio fornisce supporto per una nuova malattia fibrotica indotta dalla plastica, che definiamo plasticosi.”

© sciencedirect.com
Plasticosi

Così gli scienziati battezzano la patologia legata all’ingestione della plastica. Ma più vanno a fondo più si accorgono che ad approfondire i danni prodotti dalla plastica è come aprire la porta dell’inferno. Nello stesso studio riportano che una volta ingeriti gli oggetti di grandi dimensioni possono essere frammentati in pezzi più piccoli, come le microplastiche di 5 millimetri al massimo, o le nanoplastiche, con dimensioni inferiori al micron, un millesimo di millimetro. I ricercatori sanno che questi ultimi frammenti infinitesimali sono i più insidiosi. Possono essere assorbiti dal tratto digestivo, trasportati dal flusso sanguigno e accumularsi nei tessuti e negli organi. Le plastiche più piccole di dieci micron sono in grado di attraversare le membrane cellulari, compromettendo potenzialmente la funzionalità delle strutture intracellulari e dei tessuti. I danno osservati includono: cambio del comportamento, riduzione dell’accrescimento e della fecondità, stress ossidativo (una condizione che si verifica quando le cellule di un organismo sono sottoposte ad un eccesso di agenti ossidanti), alterazioni metaboliche e impatto nella salute attraverso le generazioni. Un quadro che suggerisce una forte diminuzione nelle le aspettative di vita e nelle capacità di sopravvivenza e di adattamento degli individui. Un problema che, se inserito in un quadro più generale, potrebbe quasi certamente trascendere le singole specie o classi.

Uccelli circondati dalla plastica | © Matthew Chauvin

“Come potenziale indicatore geologico per l’Antropocene, la plastica è un segno distintivo onnipresente e pervasivo della nostra società moderna. Recentemente il rapido consumo e l’immissione di materie plastiche nell’ambiente ha superato ogni confine sul pianeta sia per l’ubiquità nell’ambiente che per l’irreversibilità dell’inquinamento. La plastica e il cambiamento climatico sono intrinsecamente legati. La produzione di plastica attualmente contribuisce al 4,5% delle emissioni globali di gas serra, esacerbando i danni all’ambiente a livello globale. Senza un intervento politico la domanda di plastica potrebbe raddoppiare entro il 2050”

Ci sono voluti tanti anni per scoprire che quel fantastico materiale duttile non era così inerte. Chissà cosa penserebbero oggi Alexander Parker e Giulio Natta padri della plastica. Mi rassicura immaginare che non abbiano alcun modo di sapere cosa sta succedendo. Loro avevano solo scoperto dei materiali durevoli, resistenti, leggeri ed igienici. Materiali che hanno accelerato notevolmente il nostro sviluppo. Non potevano immaginare che la plastica sarebbe diventata uno dei cavalieri dell’Apocalisse.

“I dati sono allarmanti. Non è azzardato pensare che ciò che sta accadendo alla fauna selvatica potrebbe accadere a noi “

Jennifer Lavers

Jennifer Lavers | © listennotes.com.jpg
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