Nucleare, sì e no
È ufficiale: Greta ha detto sì al nucleare. Pur insistendo sulla priorità delle rinnovabili, l’attivista svedese ha dichiarato che sarebbe un errore spegnere le centrali atomiche se ad oggi l’unica soluzione certa al fabbisogno energetico è il carbone. Come Thunberg molti altri ambientalisti di nuova generazione la ritengono la fonte di energia del presente, in attesa che le risorse con emissioni vicine allo zero, come fotovoltaico ed eolico, diventino concorrenti più vantaggiosi dei combustibili fossili.

Nonostante una frangia di eurodeputati fermamente contraria, il Parlamento europeo a maggioranza lo ha incluso, insieme al gas, nell’elenco delle attività economiche in grado di mitigare il cambiamento climatico. Il suo impiego dovrà essere però limitato nel tempo, e dovrà rispettare gli standard di sicurezza, negli anni sempre più stringenti, dettati dal trattato Euratom.
Eppure, c’è ancora molta diffidenza verso l’energia derivata da fissione atomica: fra i cittadini che sventolano le bandiere NIMBY (not in my back yard), che manifestano per la chiusura delle centrali in attività e per quelle in progetto, e nella piattaforma di scienziati, politici ed ecologisti che considerano il nucleare un pericolo per l’ambiente che favorirebbe solo gli operatori finanziari.
Ci potrebbero essere però risvolti economici: incentivare l’impiego del nucleare per molti paesi europei inclusa l’Italia potrebbe dire sganciarsi dalla sudditanza energetica dei grandi esportatori di gas come la Russia. La guerra in Ucraina ha inciso sulle bollette, ed è sempre dietro l’angolo il rischio di un taglio netto della fornitura come rappresaglia politica nei confronti di chi sostiene Zelensky.

Pripyat, un paradiso radioattivo
Un esempio della spaccatura fra il mondo pro e contro energia atomica viene dalla storia di Pripyat , città fantasma ucraina, un tempo casa dei lavoratori della centrale di Černobyl’, evacuata dopo l’incidente del 1986, fa parte ormai della zona di alienazione. Qui il verde ha vinto sul cemento: alberi e cespugli che invadono marciapiedi e strade, e animali come orsi, lupi, cinghiali, gufi e aquile che abitano nei condomini come in uno zombie movie per famiglie. Secondo alcuni biologi l’aumento della biodiversità dovrebbe provare che le radiazioni non sono più nocive. Altri studiosi hanno replicato che la fauna è cresciuta perché è stato l’uomo ad andarsene, ed hanno rilevato in molti animali tumori e mutazioni genetiche.

Ancora più inquietante è il fenomeno che ha coinvolto il verde di Pripyat e di tutte le aree contaminate, descritto nel libro di Stefano Mancuso “L’incredibile viaggio delle piante” (Laterza, 2018): qui gli alberi hanno sviluppato la capacità di sopravvivere alle sostanze radioattive assorbendole al loro interno, mediante il processo del fitorisanamento. A Pripyat la natura ha letteralmente bonificato l’ambiente, ma dietro l’apparente placidità del verde paesaggio si nasconde un pericolo sempre in agguato, quello di un incendio. In un articolo su Nature (https://www.nature.com/articles/srep26062) Timothy Mousseau, docente del Dipartimento di Scienze Biologiche dell’Università del South Carolina spiega cosa accadrebbe se la foresta ucraina prendesse fuoco: un incendio causerebbe la risospensione delle particelle radioattive nell’aria, che sarebbero trasportate per centinaia di chilometri sino a contaminare anche le zone che ai tempi dell’incidente di Chernobyl non erano state colpite.

E le foreste radioattive si trovano in un’area ad alto rischio di incendio, a causa della siccità dovuta alla crisi climatica e, della mancanza di un sottobosco umido dovuto alla riduzione, dall’epoca del disastro, di agenti decompositori come vermi, insetti, funghi. Ad aggravare la situazione è la carenza di infrastrutture antincendio: ci sono parti dell’Ucraina quasi inaccessibili ai vigili del fuoco, o che richiedono più di 45 minuti per essere raggiunte.
Atomica sotto tiro
Ma la parola nucleare evoca anche l’incubo della bomba atomica, quella che la Russia possiede e che, secondo il Parlamento europeo in un impeto di retorica, ha minacciato di utilizzare.

L’attacco russo alla centrale di Zaporizhzhia ha dimostrato che l’energia atomica può essere utilizzata, anche solo a scopo intimidatorio, come arma e come bersaglio. Per la prima volta nella storia una centrale nucleare è stata bombardata: non sono stati colpiti i reattori, ma ci sono stati danni alle linee elettriche che hanno temporaneamente compromesso la sicurezza dell’impianto e impedito le regolari comunicazioni.
E se nel mirino ci fosse stato il nucleo della centrale? Risponde Gianfranco Caruso, docente del Dipartimento di Ingegneria astronautica, elettrica ed energetica dell’Università La Sapienza di Roma: “Ovviamente gli impianti non sono costruiti per resistere ad azioni di guerra mirate, ma tenderei ad escludere che dei missili fuori controllo o dei proiettili da carro o da cannone possano provocare danni tali da esporre il combustibile nucleare all’ambiente. Forse un sistema d’arma in grado di penetrare le pareti di un bunker potrebbe provocare danni sensibili alla struttura, se diretto su di essa in maniera intenzionale, ma sarebbe incomprensibile lo scopo militare che verrebbe raggiunto in tal caso, in quanto l’eventuale nube radioattiva non sarebbe controllabile e andrebbe probabilmente ad interessare anche i territori controllati da chi lo ha lanciato.” E descrive come “a prova di bomba” la struttura della centrale di Zaporizhzhia: ” I sei impianti presenti sul sito sono protetti da edifici di contenimento indipendenti, a protezione di ciascun reattore nucleare, con uno spessore di calcestruzzo rinforzato e un ulteriore spessore di acciaio. Sono costruiti per resistere, oltre che ad un terremoto di elevata intensità, anche alla caduta di un aereo. Il combustibile nucleare è poi protetto all’interno di un recipiente in acciaio.”
Secondo Caruso questo potrebbe essere lo scenario peggiore anche se altamente improbabile: “…una contaminazione di una certa importanza nei pressi dell’impianto e la necessità di evacuare l’eventuale popolazione presente nel raggio di 20-30 Km. Mi chiedo comunque quale potrebbe essere lo scopo di colpire intenzionalmente una centrale nucleare per danneggiarla gravemente, rischiando di subirne le conseguenze.”
Godzilla ancora dietro l’angolo
Nucleare, no grazie: era il 1977 quando una giovanissima ambientalista danese, Anne Lund, disegnò un sole rosso che ride su sfondo giallo associandolo alla celebre frase che venne poi tradotta in più di cinquanta lingue diventando la bandiera dell’attivismo anti-atomica. Il movimento ufficiale internazionale nacque in realtà dopo due anni, nel 1979, con l’incidente della centrale statunitense di Three Mile Island, in Pennsilvanya, che provocò un rilascio di radiazioni non rilevante ma che forse per la prima volta fece oscillare, di fronte al mondo, la reputazione dell’atomica civile.
Da allora, i disastri di Chernobyl e Fukushima hanno moltiplicato la concentrazione di diffidenza per quella che nel secondo dopoguerra molte nazioni, Stati Uniti in testa, un po’ per neutralizzare l’orrore della tragedia di Hiroshima, un po’ per occultare la corsa agli armamenti, hanno promosso come la scoperta più importante del ventesimo secolo con le sue infinite applicazioni, da quello energetico a quello della medicina.

E negli anni ci siamo lasciati coinvolgere anche dall’intrattenimento anti atomica: film sui disastri nucleari (“Sindrome cinese”, “The day after”) o su mostri e mutanti generati dalle radiazioni, fino ad arrivare alla serie tv della famiglia Simpson, dove un personaggio irresponsabile e goffo come Homer è nientemeno che ispettore della sicurezza di una centrale nucleare.
Silvia Kuna Ballero, scienziata e scrittrice, nel suo libro “Travolti da un atomico destino” (Chiarelettere, 2022) analizza la nostra atavica sfiducia nei confronti dell’energia nucleare, che perdura nonostante “…l’inquinamento provocato dalle centrali a carbone o a petrolio causi ogni anno più morti e malati di tutti gli incidenti nucleari della storia messi assieme…”, e considerando che “…non esiste a oggi un solido corpus di letteratura medica che dimostri un maggior rischio sanitario per chi vive nei pressi delle centrali nucleari.”
Eppure continua a preoccupare molto di più una possibilità (l’esplosione di una centrale atomica) piuttosto che una certezza (il cambiamento climatico). Questo perché, secondo Ballero “fare qualcosa che riteniamo rischioso, come costruire, centrali nucleari, ci spaventa di più rispetto a quel che potrebbe succedere se non facciamo nulla.” La giovane scienziata spiega come gli incidenti finora avvenuti siano stati interpretati dalla gente soprattutto come un fallimento di gestione: violazione dei codici di sicurezza ed errori compiuti durante le emergenze.

Dopo l’incidente di Fukushima nel 2011, la Commissione europea ha attuato un esame dei rischi e della sicurezza di tutte le centrali dell’UE, ed ha fornito una valutazione complessivamente positiva degli standard. Qualcuno potrebbe tuttavia affermare che paesi come l’Italia, dove nelle normali fabbriche si verificano spesso incidenti per inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro, non sarebbero all’altezza di governare un parco di energia nucleare che di fatto impone regole ferree ad ogni livello, da chi progetta l’impianto a chi poi lo fa funzionare. E che comporterebbe una grande spesa. La sicurezza, si sa, costa.

A preoccupare sono anche le scorie delle centrali nucleari, che hanno una vita media dalle centinaia di migliaia ai milioni di anni, e che per questo vanno confinate in depositi geologici fra i 200 e i 1000 metri di profondità. Silvia Kuna Ballero spiega che questi rifiuti rappresentano una percentuale minima rispetto alle scorie radioattive di livello basso (come quelle provenienti da industria e ospedali), considerate poco radioattive ma non per questo meno tossiche, che ora vengono stoccate in depositi di terraferma a bassa profondità, ma che fino al 1993 sono state scaricate in mare, a volte senza contenitori di sicurezza. E ricorda che le scorie dei combustibili fossili vengono quotidianamente rilasciate in aria, suolo e acqua. In un’epoca in cui si promuove il modello circolare dove tutto si può riutilizzare senza produrre rifiuti, probabilmente non ci piace pensare a capsule di materiale che resterà pericoloso per sempre, nascoste sotto i nostri piedi come polvere sotto i tappeti.

Riusciremo a fare amicizia con l’atomica, così come caldeggiato nel film didattico del 1957 di Walt Disney “Our friend the atom” (https://www.youtube.com/watch?v=sBbmqUaT0W0) , dove l’energia del futuro ha le fattezze del genio della lampada? Come Aladino, non ci dobbiamo lasciare sedurre o terrorizzare da qualcosa che va utilizzato con piena consapevolezza di tutti i rischi.
Mah…
Se ne può parlare all’infinito.
Ma gestire la sicurezza di un “normale” impianto industriale è tutt’altro che uno scherzo, considerato il numero di variabili in gioco.
Il fatto che abbiamo continuamente incidenti nell’industria va oltre la mentalità “dolosa” di massimizzazione degli utili risparmiando dove si può.
Quando la complessità di una realtà va oltre una certa soglia, elastica quanto si vuole, nessun algoritmo comandato da P.L.C. ci fa stare al sicuro.
E non ho ancora citato il fatto che spesso le sicurezze automatiche vengono aggirate manualmente, per motivi che non sto ad elencare.
Il mio personale parere è che le rinnovabili possono agire solo da contorno, l’idroelettrico a parte.
La ricerca, e quindi le risorse che troppo spesso si vengono depauperate in piccoli rivoli senza futuro, dovrebbe concentrarsi sulla fusione nucleare.