Plogga, baby (e raccogli l’immondizia!)

Running per perdere peso o aumentare i muscoli, per vincere una sfida quotidiana, oppure, come Forrest Gump, per rintracciarsi nel corpo in movimento. E al traguardo, per tutti una coppa di euforia, autostima, senso di libertà.

Plogging sulle spiagge

La ricetta più genuina per dare vigore anche all’intelligenza naturalistica prospettata dallo psicologo Daniel Goleman, portale della consapevolezza ambientale. Correre all’aperto è già di per sé ecologico, ancor più se con un obiettivo: la rigenerazione degli spazi comuni. Parola di Erik Ahlström, il fondatore di Plogga. Ma chi corre consuma oltre alle calorie suole non biodegradabili che vengono date in pasto alle discariche già affollate di spazzatura fast fashion.

Erik Ahlstrom fondatore di Plogga | © Erik Ahlstrom
Pick ‘nd jog

La storia di Plogga comincia quando, dopo vent’anni trascorsi in un paese di montagna lindo come un dipinto naïf, Erik torna a Stoccolma e con amarezza nota l’aumento dei rifiuti abbandonati ovunque in città. “La Svezia sta diventando sempre più sporca. Ogni giorno ci sono 2,7 milioni di mozziconi di sigarette sulle nostre strade, e nel Paese vivono 10 milioni di persone.” Comincia un giorno a raccogliere qualche cartaccia lungo il suo abituale sentiero da runner, e avverte un cambiamento: “Fa bene al cuore pulire un piccolo spazio. Certo, non ha fatto una gran differenza per nessuno, a parte me.” Ma il cerchio rapidamente si allarga. Con il suo background da sportivo cosmopolita Erik negli anni ha stretto amicizia con molti amanti della corsa all’aria aperta, e con alcuni di loro organizza un programma di pulizia della città.

Muniti di sneakers e sacchetto, si gioca una caccia al tesoro stile cardio fitness che stimola endorfine e adrenalina, tonifica più di una normale corsa grazie ai ripetuti squat e al peso dei rifiuti raccolti, e che in più aiuta l’ambiente. L’iniziativa, battezzata Plogga, fusione delle parole svedesi Plocka (raccogliere) + Jogga (correre) non tarda a ricevere l’attenzione dei media, mentre la schiera di eco-runner si allarga, fino ad arrivare al record di 450 partecipanti in un solo happening.

“Andiamo in giro con il sorriso, battendo il cinque, vestiti sportivi. Non indichiamo, ma mostriamo: gambe forti, occhi allegri e risate, perché nessuno debba sentirsi forzato a raccogliere l’immondizia”. L’obiettivo è contagiare i cittadini con il buon umore e presentare un modo alternativo di conquistare il benessere personale e collettivo, nel quotidiano come in occasione degli eventi sportivi.

Plogging in montagna | © Stefano Jeantet
Un mondo di ploggers

“Una ricerca ha mostrato che se tu vai ad una manifestazione di sport e gli stand sono pieni di immondizia, gli spettatori resteranno a distanza l’uno dall’altro. Se invece sono puliti, aumenta la voglia di interagire e stare più vicini”. Difatti quello che resta al termine di molti eventi sportivi, anche quelli all’insegna del sociale o dell’ambiente, è quasi sempre un circuito di rifiuti fra cui un’alta percentuale di bottiglie di plastica vuote. E se l’immondizia crea frantumazione sociale, è invece l’aggregazione che si verifica durante le uscite di plogging: Erik e i suoi colleghi vengono spesso avvicinati da persone che vogliono sapere cosa sta accadendo, a cui volentieri dedicano una sosta per raccontare la filosofia del “corri e raccogli”. E così una parte dei seguaci di Plogga viene reclutata “strada facendo”. Ma sono anche gli hastag #Plogga e #Plogging diffusi sui social network Facebook e Instagram insieme alle foto delle loro eco-prodezze ad accrescere la visibilità dell’iniziativa, che attualmente coinvolge sessanta Paesi, fra cui anche l’Italia. Nel 2022 un Plogga Camper ha viaggiato dalla Svezia al Portogallo, coinvolgendo sindaci, scuole, cittadini. In Svezia Erik ha fatto correre con il sacco il Ministro dell’ambiente e la famiglia reale, e ha collaborato con atleti come Kilian Jornet, lo scialpinista e ultramaratoneta spagnolo.

Kilian Jornet | © corosnordic.com

Ma il plogging si è affacciato anche nei luoghi dove la cultura del retake non è ancora sviluppata, e dove è frequente l’abbandono di spazzatura a cielo aperto, non solo da parte dei locali: in Marocco i ploggers hanno dato lezioni di tutela delle mete di vacanza ai turisti sui Rosa Bussarna, autobus rosa in cui si viaggia e si abita; in Nepal i giramondo amanti di escursioni, rafting e canoa hanno ripulito l’area degradata di un tempio; in India in una giornata nella città di Pune sono state raccolte due tonnellate di plastica; in Thailandia sono stati riempiti sacchi di immondizia nella jungla di Chiang Mai.

Rifiuti a quota 8000 metri sul monte Everest | © Namgyal Sherpa | AFP

Il plogging arriva ad alta quota, dove si corre per restituire alla montagna la sua purezza, e al livello del mare, dove bisogna essere rapidi di piede e di mano perché, considerando che l’85% dei rifiuti che si trovano al largo provengono dalla terra, “una volta che l’immondizia cade in acqua, è impossibile ploggarci dentro!”.

 

Declinare al plurale un’attività che si svolge abitualmente da soli è la chiave di progetti come Plogga: è quanto accade ad esempio nell’ekiden, la maratona “collettiva” giapponese che rappresenta uno degli eventi sportivi più popolari nel Paese del Sol Levante. I componenti di una squadra di sei persone compiono tappe individuali di circa 10 km passandosi una fascia come testimone. Parente della staffetta? Alla lontana: nell’ekiden ogni atleta corre per molti chilometri affrontando freddo, vento, stressanti altalene di pendio che mettono a dura prova l’organismo, con quel senso dell’onore da samurai che fa immolare i propri tendini piuttosto che abbandonare la competizione. E se qualcuno rallenta il passo, sarà il compagno più veloce a recuperare il tempo. Nata nel 1917 per festeggiare il passaggio dalla vecchia capitale Kyoto all’attuale Tokio, la gara ha conquistato una popolarità mondiale, tanto che la Nike nel 2019 ha prodotto un modello di scarpa da running dedicata proprio all’ekiden.

Scarpa da running dedicata all’Ekiden | © Nike
Talloni d’Achille

D’altra parte il mercato delle calzature sportive è in continua ascesa: secondo la ricerca condotta da PwC il fatturato a livello mondiale di questo segmento raggiungerà un valore di oltre 100 miliardi di dollari entro il 2026. Ogni anno vengono prodotte nel mondo ben oltre 20 miliardi di paia di scarpe sportive, con l’Asia principale esportatore. In Germania, Giappone, Francia e Stati Uniti si comprano più sneakers, che vengono sempre più utilizzate non solo per correre e sudare ma anche con abbigliamento formale.

E così accelera anche l’inquinamento: per rendere le scarpe sempre più confortevoli e anti-infortunio vengono impiegati materiali derivati da combustibili fossili, come le schiume per ottenere suole ultraleggere, e poiché ogni manuale di running raccomanda di sostituirle dopo un certo chilometraggio, si gonfiano i sacchi dell’indifferenziato domestico. E su tutto l’ombra del greenwashing: aziende che propongono scarpe sportive vegane, realizzate con caucciù dell’Amazzonia o canna da zucchero (ma a quanti giri di corsa resisteranno?), altre che parlano di materiali riciclati al 50%, ma solo per la tomaia, perché per un battistrada efficace non c’è bio che tenga. Una sola certezza: anche la scarpa nemica dell’ambiente se triturata a dovere può rinascere, nel tappeto antitrauma di un parco giochi. Dove crescere futuri runner amanti della natura.

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