Himalaya: spazzatura sul tetto del mondo

70 anni fa la prima ascensione al monte Everest: il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay non verranno ricordati ormai soltanto come gli avanguardisti della cima più alta del mondo. Sono stati probabilmente loro a gettare il primo rifiuto a 8.849 metri di altitudine, e da allora oltre 6.000 alpinisti hanno continuato a depositare immondizia in quello che immaginiamo da sempre come un tempio naturale di purezza. Se per troppo tempo sull’ Himalaya è valso il detto “out of sight out of mind”, ed abbandonare i rifiuti nei campi base è stata una pratica abituale ed accettata, ora le fotografie e i video realizzati da molti scalatori ambientalisti scendono a valle nella coscienza collettiva e gridano forte: l’Himalaya sta diventando una discarica di alta quota.

Monte Everest | Nepal | © Mount Everest Biogas Project
Prima del monsone: traffico in tilt

È un turismo sempre più di massa che sta trasformando i ghiacciai himalayani in un magazzino di sporcizia. Una moltitudine d’élite: alpinisti più che benestanti, ma che nella breve stagione delle ascensioni, a primavera, sono in grado di lasciarsi dietro un tappeto di rifiuti paragonabile a quello di una spiaggia a ferragosto.

Da quando, negli anni ’50, il Nepal è stato aperto agli stranieri, ha preso il via un periodo di super spedizioni in cui le grandi potenze mondiali si sono sfidate a colpi di piccozza: Cina, Giappone, Stati Uniti e URSS hanno inviato sulle vette himalayane team di 100-200 persone senza risparmiare sull’equipaggiamento, che in alcune occasioni è stato trasportato su elicottero. Negli anni ’70 la parentesi minimalista di Reinhold Messner e Jerzy Kukuzcka, che utilizzavano attrezzatura leggera e pochi o zero assistenti. Negli anni ’80 parte la grande era commerciale delle scalate organizzate dalle agenzie turistiche, vivacizzata da una planetaria corsa ai record: il primo della propria etnia, la prima donna, il più giovane e il più anziano, il primo con disabilità a raggiungere gli 8000 metri.

E il business delle ascensioni, resuscitato dopo la pandemia (nel 2021 il governo nepalese ha emesso permessi per un valore di 4,2 milioni di dollari) ha toccato il vertice quest’anno, con più di 450 licenze che hanno trasformato l’Everest in una rete di sentieri congestionati dal traffico dove si procede a doppio senso alternato fra chi sale e chi torna. E una volta arrivati ai campi di stazionamento, uno scenario molto distante dal sublime che prospettano le agenzie di viaggio: fornelli da campo, tende dismesse, bombole di ossigeno vuote, confezioni per alimenti, ma anche feci e avanzi di cibo, residui organici che alle basse temperature stentano a decomporsi. Tonnellate di immondizia che vengono lasciate senza scrupolo lungo i percorsi, oppure scaricate nei crepacci come fossero fosse biologiche. Uno spettacolo che non fa male solo alla vista: i laghi della Riserva di Sagarmatha presentano ormai tracce allarmanti di sostanze chimiche, e lo scioglimento dei ghiacciai fa precipitare verso la pianura tutta l’immondizia, biologica e non riciclabile, che va a contaminare le riserve idriche.

In vista di una tassa sui rifiuti d’alta quota

Per limitare i danni il governo del Nepal nel 2014 ha imposto una cauzione di circa 4000 dollari a persona, da restituire soltanto a chi riporta almeno 8 kg di rifiuti all’ufficio del Sagarmatha Pollution Control Committee . Un ufficiale di controllo dovrebbe poi seguire la comitiva di alpinisti fino al campo base, a 5300 metri, per assicurarsi che venga rispettato l’ambiente. Un provvedimento con molte lacune. Uno studio del 2022 condotto dal giovane ambientalista Tsewang Nuru Sherpa per la Lincoln University, spiega perché il GDS (Garbage Deposite Scheme) non funziona.

Tsewang Nuru Sherp | © wildernessmag.co.nz

Per chi è disposto a spendere anche 100.000 dollari per una scalata, una quota di 4000 equivale ad una mancia: la maggior parte preferisce perdere il deposito piuttosto che preoccuparsi della pulizia dell’accampamento e trascinare poi in discesa un sacco di spazzatura. Alcuni scalatori si giustificano ricordando che a 8000 metri di altitudine con l’organismo spossato dalla salita e dalla mancanza di ossigeno la sensibilità ambientale si riduce al minimo: la priorità è tornare sani e salvi al villaggio. In alcuni casi a motivare il comportamento anti-ecologico è stato il meteo avverso: improvvise tempeste di neve e vento, o catastrofi come la valanga del 2014 o il terremoto del 2015, che hanno obbligato gli alpinisti ad abbandonare rapidamente il campo lasciando tende ed attrezzature pesanti.

Tsewang Nuru, da sherpa, afferma che con lo stile di insediamento ormai diffuso nelle spedizioni è impossibile evitare i cumuli di immondizia: dopo il primo campo base, ne vengono montati altri cinque a diverse altitudini, e in ognuno vengono impiegati quintali di materiali da parte di alpinisti e assistenti che devono respirare, mangiare e utilizzare i wc portatili. D’altra parte non si può economizzare sulle bombole di ossigeno, e la dieta dell’alpinista è molto simile a quella degli astronauti, cibo disidratato in confezioni singole di plastica. Secondo la normativa dovrebbero essere poi le organizzazioni locali, su delega del Ministero dell’Ambiente, a recuperare i secchielli igienici dopo ogni spedizione, ma spesso mancano fondi e risorse umane, e quando finalmente viene organizzato un intervento di pulizia annuale ci si trova di fronte ad una cloaca all’aperto. E qui sono chiamate in causa anche le agenzie turistiche nepalesi, molte delle quali propongono a prezzi scontati spedizioni di bassa qualità che attraggono alpinisti improvvisati, con assistenti impreparati che non sanno come si gestisce il lungo soggiorno nel campo.

È opinione ormai condivisa da tutti che manchi un coordinamento efficace fra Ministero dell’Ambiente, organizzazioni non governative ed esperti del settore. Le autorità locali hanno inoltre dimostrato una scarsa conoscenza di montagna ed ascensioni, ed i veri esperti, gli sherpa, gli unici in grado di scortare una spedizione fino alla vetta, sono esclusi dal tavolo delle decisioni. Gli stessi ufficiali di controllo non sono montanari rodati: la gestione dei rifiuti in realtà non risulta fra le loro competenze, e non sono fisicamente capaci di arrivare oltre il campo base, che spesso comunque disertano in cambio di un compenso extra da parte dei turisti. È ormai un adagio: più sali, più spazzatura trovi.

Secondo Tsewang Nuru Sherpa la cauzione dovrebbe essere sostituita da una tassa più corposa che dovrebbe finanziare un piano di recupero ambientale, in cui sarebbero coinvolti non tanto i turisti quanto i locali. Dovrebbero essere gli sherpa a coprire il ruolo degli ufficiali di controllo, e tutti i cittadini della regione dovrebbero essere più sollecitati circa il problema dell’inquinamento delle loro montagne. Aumentando anche il costo dei permessi, come ha già fatto la Cina per chi vuole salire dal versante tibetano, si potrebbe scongiurare l’ingorgo di alpinisti.

Montagne di plastica

Intanto, chi ci restituisce vette immacolate? Solo gli sherpa o gli alpinisti professionisti, con i loro polmoni abituati all’aria rarefatta, possono fare pulizia fino alla “zona della morte”, oltre i 7600 metri.

Monte Everest | Catena dell’Himalaya

Ma c’è tanto da fare anche più in basso: dal 2018 The Himalayan Cleanup organizza dal 26 maggio le “pulizie di primavera” nella regione montuosa del Nepal insieme a organizzazioni e istituzioni locali. L’obiettivo è rendere consapevoli i cittadini, di quanta plastica si depositi nel secchio della spazzatura e in ogni angolo delle montagne.

Per dare il buon esempio i volontari eseguono un retake ”pulito”: i rifiuti si raccolgono con guanti riutilizzabili e sacchi riciclati, gli striscioni della manifestazione sono di stoffa, e viene bandito il pranzo al sacco che produce ulteriore immondizia, concesse solo brevi pause per bere acqua dalla bottiglia personale e mangiare frutta. Finiti i tempi in cui si premiavano i giovani ambientalisti con merendine e succhi in brik.

THC ha promosso negli ultimi anni degli audit domiciliari che hanno coinvolto quasi 200 famiglie dei 12 stati dell’IHR (Indian Himalayan Region) per il controllo dei rifiuti nelle loro abitazioni. Dalla verifica del 2022 risulta che il 92,7% dei rifiuti sono in plastica, di cui il 72% non riciclabile. In testa alla classifica i contenitori per cibo e bevande. Tra i marchi che finiscono più spesso nel bidone di casa compaiono le multinazionali Coca Cola, Pepsi co., Unilever (che produce dalla maionese al dentifricio), la Mondelez (snack per tutti i gusti) ma anche l’indiana Patanjali Ayurved che commercia bibite alle erbe, tisane e miele, tutte rigorosamente in confezioni di plastica. Sembra che nel tempo nell’area himalayana sia aumentato il consumo di alimenti confezionati, spazzatura per lo stomaco e per l’ambiente, e non tramonta la passione per il gutka, il tabacco da masticare venduto in bustine di plastica. Sono in progetto campagne di educazione alimentare nelle famiglie e nelle scuole, anche se si tratta di una battaglia contro i mulini a vento dei colossi del junk food che hanno conquistato da tempo l’apparato digerente di tutto il mondo.

Monte Everest

Il Ministero dell’Ambiente nel 2021 ha bandito molti oggetti di plastica monouso, in particolare le bottiglie, incoraggiando l’abitudine della borraccia riutilizzabile. Il paradosso è che in queste regioni l’acqua che dovrebbe soddisfare il fabbisogno idrico delle comunità montane ma anche di tutta la pianura indo-gangetica è sempre più contaminata dalla dispersione nell’ambiente dei rifiuti in platica. La spazzatura che non viene incenerita (perlopiù all’aperto), si ammucchia sulle rive dei fiumi o intasa le correnti. E il governo promuove l’uso di filtri domestici di depurazione o dei “water ATMs” che erogano acqua potabile, proprio in quella che dovrebbe essere una delle banche di H2O più importante del pianeta.

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