Non più solo bevande liofilizzate e cibo semi-disidratato per gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale e delle future missioni interplanetarie. Se molti di noi da bambini sognavano un futuro da “starman”, tra i cui privilegi c’erano non solo premere su un’infinità di bottoni e giocare con l’assenza di gravità, ma anche poter rinunciare alla porzione di verdura, lo scenario sta decisamente cambiando: i broccoli e i cavolfiori voleranno presto più veloci della luce.

Sono due gli obiettivi che si pongono gli ingegneri spaziali: rendere più salutare, appetitoso e gratificante il pasto di chi soggiorna a lungo lontano dal nostro pianeta, in orbita bassa; riuscire a far crescere sul suolo extra terrestre le piante che possono garantire l’autosostentamento. Il traguardo finale è una tipologia di coltivazione che consente di avere a portata di mano frutta e verdura ovunque: all’interno di una stazione spaziale, sulla base lunare, e su un altro pianeta. E se le zucchine potranno crescere sul terreno arido della Luna o di Marte, con le stesse competenze e strumentazioni sarà possibile rendere fertile un deserto sulla Terra, e sfamare milioni di persone.
A cena fuori, nello spazio
Guardare gli astronauti aspirare una zuppa da un sacchetto di plastica con la cannuccia può suscitare curiosità e divertimento, ma chi vorrebbe essere realmente al loro posto, durante un pasto in microgravità? Oltre a non soddisfare pienamente i sensi e la psicologia (per il suo aspetto e la carenza di varietà), il cibo interstellare non è particolarmente salutare, e tantomeno ecologico: ricco di conservanti, nel tempo perde il suo contenuto di vitamine, e arriva in navicella dopo una lunga lavorazione, ogni componente del menu sapientemente confezionato e sigillato. Gli unici cibi freschi che un astronauta può permettersi sono quelli che giungono con le missioni di rifornimento. Eppure, è senza dubbio un successo per lo staff dello Space Food Systems Laboratory di Houston, riuscire a nutrire un gruppo di persone che galleggiano in un abitacolo dove una singola briciola potrebbe intasare i filtri dell’aria.

E dove anche sorseggiare il celebre Tang, la bevanda al gusto di arancia adottata dalla Nasa dal 1962, impone l’utilizzo di una cannuccia unidirezionale per fronteggiare i capricci della microgravità. Parliamo di chef dello spazio con laurea in ingegneria, ora coinvolti nella ricerca e sviluppo di pasti per viaggi di lunga durata, quelli che dovrebbero portarci a colonizzare nuovi mondi. Scorte di cibo appetibile e completo, progettato per resistere almeno cinque anni. Ma gli scienziati stanno dimostrando che è possibile rendere illimitate, o meglio rinnovabili, le risorse alimentari anche in un ambiente artificiale, come una stazione spaziale, o alieno, come un altro pianeta. Coltivandole. Per stare meglio, e sentirci a casa anche a milioni di km dalla Terra.
Contadini fra le stelle
E se fosse possibile produrre in loco gli alimenti che coprono il fabbisogno giornaliero di vitamine, sali minerali e carboidrati, l’alimentazione nello spazio potrebbe diventare più gustosa, igienica e sostenibile: meno cibo congelato, disidratato e imballato, non solo per un gruppo ristretto di astronauti ma, nel futuro, per intere colonie di terrestri in trasferta verso una nuova esistenza.

È partito quest’estate il progetto GreenCube dell’Agenzia Spaziale Italiana: un micro orto collocato in un nano-satellite (10x10x30 cm) lanciato oltre le orbite basse, all’interno delle fasce di Van Allen, una zona caratterizzata da alte radiazioni. Una volta stabilizzata la temperatura nel piccolo ambiente, sono stati irrigati i semi di crescione precedentemente piantati in un substrato. Dalla Terra si sta osservando il ciclo di germinazione e di crescita. E piacerebbe agli astronauti della ISS un’insalata verde condita con olio d’oliva, lo stesso che di recente è stato inviato dall’ASI, in accordo con il CREA, al fine di studiare come si conservano nello spazio, e nei contenitori attualmente usati a bordo, le qualità chimiche, sensoriali e nutrizionali di uno dei prodotti italiani più apprezzati nel mondo. I campioni di EVO saranno restituiti al laboratorio terrestre, dopo 6, 12 e 18 mesi, per essere confrontati con gli omologhi rimasti a casa.
Da parte dell’Agenzia Spaziale Europea, presso l’impianto pilota MeLiSSA (Micro Ecological Life Support System Alternative), a Barcellona, si sta sviluppando un ecosistema autonomo che risponda ai bisogni di base quotidiani di ogni astronauta: 1kg di ossigeno, 1 kg di cibo disidratato e 3 kg di acqua, per bere e per reidratare il cibo essiccato. Si eseguono esperimenti non solo con le piante commestibili, ma anche su quelle, come le alghe, che potrebbero fornire ossigeno a ciclo continuo durante un viaggio nello spazio. In pratica, se donne e uomini vogliono affrontare lo spazio profondo, dovranno partire con la sicurezza di poter autoprodurre almeno il 50% di cibo e ossigeno necessari. Ma gli studi si rivolgono anche a chi resta sulla Terra: da qualche anno sull’ISS si sgranocchiano barrette a base di spirulina, un’alga molto nutriente che potrebbe diventare una componente importante della dieta non solo degli astronauti ma anche dei popoli dei paesi in via di sviluppo.
Dal 2015 gli astronauti della NASA si cimentano nella coltivazione di verdure: tutto è cominciato con la lattuga rossa, che il team ha sgranocchiato con gusto in mondovisione, e molte altre varietà di insalata sono state piantate e mangiate sulla ISS, privilegiando quelle più ricche di vitamina C e K, fondamentali per prevenire le infezioni. Non è da trascurare la valenza terapeutica dell’orticoltura in un ambiente claustrofobico come quello della Stazione Spaziale: poter curare, annusare, toccare ed infine gustare piantine può fare la differenza per chi è circondato h24 da cavi, monitor e pulsanti.

E poiché in microgravità è difficile percepire i sapori, ad eccezione del piccante, a rendere più appetitosi i pasti in orbita bassa è arrivato un tipo di peperoncino verde, che è una fonte ancora più ricca di vitamine e acqua. Il primo raccolto è stato impiegato nella preparazione dei tacos, mentre una parte del secondo è stato spedito sulla Terra per essere analizzato, anche perché l’esperimento è stato più impegnativo. Rispetto alla lattuga, i peperoni richiedono l’impollinazione, e crescono più lentamente.

E la storia di una verdura che nasce nello spazio ha origine sulla Terra: dopo una lunga selezione delle varietà più adatte alla crescita in condizioni estreme, avviene la sperimentazione in laboratorio o altrove, come la simulazione di orto marziano realizzata dall’ENEA nel deserto dell’Oman per la coltivazione di pomodorini varietà Micro Tom, ricchi di antiossidanti e antimicrobici, adatti a chi abita nello spazio, dove mantenersi in salute è la sfida quotidiana.
Per fare un fiore ci vuole…la Luna
È accaduto nei laboratori dell’Università della Florida, dove gli scienziati del Dipartimento di orticoltura, così come riportato dall’articolo di Nature (https://www.nature.com/articles/s42003-022-03334-8), hanno visto crescere piantine di arabetta nella regolite, il suolo lunare riportato dagli astronauti della serie di Missioni Apollo fra il 1969 e il 1972. Posizionati in terrari trasparenti, ventilati ed illuminati, con irrigazione sotterranea, i semi dopo due giorni sono germogliati, dando origine a piantine meno robuste di quelle ottenute nella simulazione realizzata con cenere vulcanica, con aspetto e vigore diverso a seconda del campione di regolite utilizzato.

È ancora presto per poter programmare una coltivazione sulla Luna, ma l’esperimento ha dimostrato che anche in un terreno ostile come quello lunare può crescere una pianticella. E la conferma della presenza di ghiaccio, per il rifornimento di acqua, al Polo Sud della Luna lascia sperare in un futuro da agricoltori per gli astronauti delle prossime spedizioni. Sebbene la maggior parte dei progetti relativi alla crescita di vegetali extraterrestri si basi sui sistemi idroponici, dove non si utilizza terra ma substrati inerti, la scoperta degli scienziati della Florida rappresenta un ulteriore prova di interazione della vita con l’ambiente lunare.
E se al menu aggiungessimo…pesce fresco? Ci ha pensato l’Istituto francese di ricerca per lo sfruttamento del mare (Ifremer), con Lunar Hatc (https://archimer.ifremer.fr/doc/00701/81276), uno studio sull’acquacoltura che prevede l’invio sulla Luna di nano-satelliti carichi di uova fecondate, da inserire poi in un ecosistema chiuso dove l’ossigeno si rinnova con le microalghe. I pro: i pesci resistono bene a vibrazioni di lancio, assenza di gravità e sbalzi termici, consumano meno ossigeno di altri animali, e allevarli può diventare uno svago per gli astronauti. I contro: la questione dell’approvvigionamento di acqua ed energia in situ.
Piedi per Terra, ma guardiamo in alto
Fantasticare di orti marziani e insalate in orbita può essere stimolante, anche se qualcuno potrebbe polemicamente riportare l’attenzione sulle criticità ancora da risolvere sul nostro pianeta madre: cambiamento climatico, siccità, fame. Gli ingegneri di tutto il mondo stanno lavorando con un occhio verso lo spazio e uno puntato sulla Terra e le sue emergenze, impiegando gli strumenti di ultima generazione per trovare soluzioni.
La piattaforma web OpenET (https://openetdata.org/) fornisce informazioni satellitari della NASA sull’evapotraspirazione, ossia il processo attraverso il quale l’acqua da piante e suolo risale verso l’atmosfera, relativa a 17 Stati Uniti occidentali, dove la siccità ha raggiunto livelli record. Sapere quanta acqua viene assorbita e quanta viene persa dopo un’irrigazione può aiutare gli agricoltori a gestire in modo efficiente il fabbisogno idrico delle colture, e progettare sistemi di conservazione dell’acqua. Contadini e gestori idrici possono attingere gratuitamente dal sito le informazioni relative ad aree piccole come un quarto di acro ad intervalli giornalieri, mensili e annuali.

L’iniziativa SERVIR (https://www.servirglobal.net/), il cui slogan recita “colleghiamo lo spazio al villaggio”, combina due punti di vista a servizio di cinquanta stati: quello dei satelliti della Nasa, che registrano i dati sulle condizioni di vegetazione (dove crescono le piante, e quanto sono sane), umidità del suolo e precipitazioni, producendo mappe delle zone più fertili e di quelle dove la siccità può diventare un’emergenza; quello dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale – USAaid, che sostiene i coltivatori locali seguendo un modello personalizzato. “Invece di costruire qualcosa e aspettarci che venga adottato, collaboriamo mano nella mano con le persone nei paesi in cui lavoriamo per identificare i bisogni e implementare insieme soluzioni sostenibili” ha dichiarato Dan Irwin, Global Program Manager di SERVIR. Alcuni esempi: in Africa Orientale la maggior parte delle aziende agricole sono fattorie a conduzione familiare, che non prevedono irrigazione ma dipendono esclusivamente dalle piogge; nel bacino del basso Mekong, sud-est asiatico, la sicurezza alimentare è legata al riso, il cosiddetto “oro bianco”, una coltura ad elevata intensità idrica; i paesi remoti dell’Himalaya stanno facendo i conti con un imprevisto aumento di siccità. In questi e molti altri Paesi SERVIR promuove la resilienza al cambiamento climatico insegnando a raccogliere le sfide ambientali con il supporto di dati e previsioni che arrivano dallo spazio.
Grazie, molto interessante! E come sempre, un lavoro molto accurato. Complimenti!