Biologico? Non ora, grazie: il caso Sri Lanka

Sostenibile. Cosa significa?

Se dovessi spiegarlo ad una classe della primaria, direi: “…che si può realizzare all’infinito, senza danneggiare la natura.” E difatti il dizionario recita: “Compatibile con le esigenze di salvaguardia delle risorse ambientali”. Ma cosa è sostenibile, veramente? Per produrre energia solare, ad esempio, si sacrificano ettari di terreno coltivabile. E altrove un raccolto di cereali diventa biocombustibile, invece di cibo.

Sri Lanka | © Jaromir Kavar

“Biologico non è sostenibile”. Lo afferma un sottobosco di neo-ambientalisti, cresciuti nel mondo che da sempre sventola la bandiera green.” Alcuni di loro, come il gruppo OkoProg, si definiscono eco-progressisti, e sono fermamente convinti che l’agricoltura biologica, che svetta tra le innovazioni sollecitate dall’Accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni inquinanti, sarebbe responsabile dell’emergenza cibo nel mondo. Insomma, per questi scienziati ed ecologisti di nuova generazione la transizione ecologica in agricoltura porterebbe più danni che benefici, perché, pur di coltivare biologico, non si produce abbastanza cibo da sfamare il pianeta: le tecnologie finalizzate alla riduzione di effetto serra e inquinamento del suolo stanno causando una flessione globale della produzione agricola, in un momento in cui il pianeta ha sempre più fame, e gli equilibri geopolitici diventano sempre più traballanti.

E restando in ambito pedagogico, un eco-progressista non perderebbe l’occasione di raccontare, quale esempio del fallimento della transizione ecologica, la triste storia dello Sri Lanka, l’isola dalle verdi pianure coltivate a tè e riso che, dopo la decisione dell’allora Presidente Gotabaya Rajapaksa di vietare l’utilizzo di fertilizzanti chimici, è precipitata nella crisi.

Il Presidente dello Sri Lanka Gotabaya Rajapaksa | © Xinhua
Sri Lanka: una dinastia e il suo bio-sogno. Infranto

Risale a settembre 2021 la dichiarazione ufficiale al Vertice delle Nazioni Unite (https://www.un.int/srilanka/news/statement-he-gotabaya-rajapaksa-president-democratic-socialist-republic-sri-lanka-un-food) in cui Gota (così lo chiama il popolo singalese)  dichiara di voler cambiare la mentalità degli agricoltori locali in vista di “una trasformazione del sistema alimentare globale”. Come a dimostrare che anche da un Paese piccolo come la “lacrima d’India” (così definita per la sua forma) può partire una rivoluzione in grado di salvare le sorti di un intero pianeta inquinato ed affamato. Di fatto la produzione agricola singalese, per rispettare lo slancio ecologista del Presidente, nell’ultimo anno ha subito un brusco rallentamento: lo Sri Lanka ha dovuto importare il riso, fino ad allora una delle principali fonti di guadagno per il Paese, e altrettanto drastica è stata la riduzione della resa media di tè, cocco e gomma.

Lavoranti in Sri Lanka su campi da tè | © Michael Freeman

Ma questo gesto eco-plateale non sembra essere la causa principale della bancarotta dello Sri Lanka: il deficit di cibo, medicinali e carburante in cui versa il Paese deriva da una politica discutibile portata avanti negli anni da Rajapaksa e la sua famiglia, una vera e propria dinastia di politici, che già dal 2005 avevano contribuito ad aumentare il debito pubblico con il progetto di trasformare lo Sri Lanka in una sorta di Disneyland finanziaria e turistica (e la Cina era il principale creditore), mentre ancora infuriava una ventennale guerra civile che è costata cara alle casse dello stato in termini di repressione, e altrettanto all’immagine pubblica, per i crimini di guerra di cui è stato accusato lo stesso Gotabaya Rajapaksa, allora Ministro della Difesa.

Manifestanti in rivolta a Colombo – Sri Lanka | © AP Photo / Eranga Jayawardena

Nel 2019 Gota viene eletto Presidente, e i principali dicasteri vengono assegnati a politici che portano il suo stesso cognome. Al nipote Shasheendra, il ministero per “risaia e cereali, alimenti biologici, verdure, frutta, peperoncini, cipolle e patate, produzione di semi e agricoltura high-tech”. Nel frattempo la pandemia paralizza il turismo, da sempre fiore all’occhiello dell’economia singalese. E poi, la stoccata finale della transizione ecologica in agricoltura. Un entusiasmo ambientalista, quello di Rajapaksa, che ha svelato una doppia faccia: da una parte la velleità di diventare il primo Paese asiatico che rinuncia ai fertilizzanti chimici; dall’altra, la necessità di tagliare le spese riducendo all’osso le importazioni, in particolare quelle di pesticidi e concimi di sintesi provenienti dall’India, per frenare la svalutazione della moneta locale.

Prima ancora che il governo vietasse i prodotti chimici, la produzione agricola aveva subito un calo, dovuto all’aumento del prezzo dei fertilizzanti e delle sementi, così come quello del carburante che ha impedito l’utilizzo dei trattori, e l’erogazione intermittente di elettricità ha causato irrigazioni a singhiozzo che non ha certo giovato alle coltivazioni. L’imposizione del biologico ha ulteriormente ridotto le coltivazioni dei prodotti di punta dell’export nazionale.

Campi coltivati in Sri Lanka | © downtoearth.org

Ma quello che i contadini chiedevano a gran voce era soprattutto più tempo, per diventare ecologici.

Non così in fretta: sembra il lamento che arriva da ogni parte del mondo.

Per passare dal chimico al biologico un terreno ha bisogno di una preparazione che può richiedere molto più dei pochi mesi che hanno avuto a disposizione i contadini singalesi. Coltivare biologico equivale a produrre di meno: la chimica, invece, accelera i tempi e facilità la superproduzione. Almeno, con le tecnologie attuali.

Lo ha rilevato l’indagine condotta da Verité Research www.veriteresearch.org/wp-content/uploads/2022/03/VR_EN_Insights_Sep2021_Organic-Fertiliser-Transition-in-Sri-Lanka.pdf , un think tank indipendente di Colombo: alla domanda “Sei d’accordo che lo Sri Lanka passi al 100% all’agricoltura biologica?”, il 64% dei contadini aveva risposto positivamente. Quando hanno compreso che senza i concimi chimici le colture languivano, molti di loro hanno espresso il bisogno di essere informati sull’uso corretto dei prodotti biologici (con cui pochissimi aveva familiarità) e su quali esattamente utilizzare. Jeevika Weerahewa , economista agricolo presso l’Università di Peredaniya in Sri Lanka, sostiene che a provocare la crisi agricola è stata la carenza di concimi biologici nazionali, che ha portato la nazione ad indebitarsi importando  costosi nanofertilizzanti organici dall’India.

Meno biologico, più cibo per tutti?

Secondo RePlanet (https://www.replanet.ngo/), una rete di organizzazioni di beneficenza e scienziati che si pone in modo critico rispetto alla transizione Farm to Fork, l’agricoltura biologica è un lusso per i paesi ricchi, che il mondo non si può concedere se vuole risolvere il problema della carestia. Questi secondo REPlanet gli interventi prioritari:

  • Diminuire la produzione dei biocarburanti (i combustibili ecologici che vengono impiegati per alimentare i motori, riscaldare, fornire energia elettrica) derivati dai cereali, che devono altresì essere destinati all’alimentazione
  • Ridurre l’allevamento di bestiame, nutrito a cereali, e quindi mangiare meno carne e più vegetali.
  • Sdoganare gli OGM, il cibo transgenico, tutto ciò che propone l’ingegneria genetica nel settore agro-alimentare.

E che biologico non è sempre ecologico lo affermano anche altre fonti autorevoli: secondo la FAO, il 14,5 delle emissioni che causano l’effetto serra arriva dagli allevamenti di bestiame, soprattutto bovini e ovini che nella digestione rilasciano un mix di gas con prevalenza di metano. Una soluzione dovrebbe essere quella di ottimizzare le tecniche di nutrizione e cura degli animali, nonché il sistema di allevamento, privilegiando quello estensivo, all’aperto e a piccoli gruppi.

Coltivazione di tè – Sri-Lanka | © Simon Urwin

E uno studio pubblicato su Nature Communications  spiega quale impatto ambientale “indiretto” potrebbe provocare  la conversione all’agricoltura biologica alla totalità di Inghilterra e Galles, dove i metodi alternativi applicati ad alcune aree hanno effettivamente portato alla riduzione delle emissioni di CO nei terreni e in allevamento. Se infatti una nazione si converte al 100% all’agri-ecologia, poiché la produzione con il biologico viene ridotta, per compensare sarà necessario importare prodotti che comunque derivano da colture ed allevamenti che danneggiano l’ambiente, in altri paesi sì, ma sempre sul pianeta Terra! Insomma, sposando il biologico, se si vuole mangiare, non si può dire addio per sempre alla chimica.

Boicottare la rivincita del sintetico

Forse una transizione ecologica in agricoltura si può realizzare, se pianificata correttamente, rispettando i tempi della natura e cercando nel frattempo di livellare le carenze di cibo con soluzioni nuove che arrivano anche dai laboratori di biotecnologia.

E per quanto riguarda il biocarburante, molte aziende stanno lavorando a soluzioni per risparmiare sui cereali: nel Regno Unito Il Renewable Transport Fuel Obligation ha sollecitato le società di combustibili fossili a produrre almeno il 10% di biocarburante, utilizzando soprattutto i rifiuti cittadini, riducendo in questo modo anche le emissioni di metano create dalla decomposizione degli scarti nelle discariche a cielo aperto; ENI ha sviluppato il progetto Waste to Fuel, produzione di bio-olio dalla lavorazione del residuo organico, il cosiddetto umido; negli Stati Uniti la compagnia petrolifera ExxonMobil propone biocarburante prodotto con alghe che vivono in acque salmastre, senza sacrificare quindi terreni coltivabili o riserve idriche; in Italia il Gruppo Costa ha rifornito delle sue navi da crociera con un pieno di olio da cucina usato e gasolio marino, e di olio di frittura per far volare gli aerei si parla nell’iniziativa RefuelEU Aviation, promosso dalla Commissione Europea per allineare l’UE all’obiettivo di decarbonizzazione entro il 2030.

Lavoranti in una risaia – Sri lanka | © Jayaseerlourdhuraj

Infine, è vitale tracciare un atlante aggiornato delle tecnologie biologiche da applicare alle diverse latitudini: il riso ed il tè dello Sri Lanka sono colture che richiedono molta dedizione, che crescono lentamente senza sollecitazioni chimiche, in un clima umido molto amato dai parassiti. Bruno Parmentier, scrittore ed economista, parla delle anatre salva-raccolto: disdegnano il riso, concimano con i loro escrementi, mangiano gli insetti. Potrebbe essere una buona idea per i contadini singalesi. Ma non dal giorno alla notte, come disposto da un Presidente la cui mossa pseudo ambientalista ha messo in ginocchio l’economia locale ed ha scatenato una rivolta popolare.

 

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