Incendi e disboscamento destano la giusta preoccupazione; il declino delle foreste riduce la capacità della natura di catturare carbonio e restituire ossigeno all’atmosfera. Ma esistono ecosistemi marini, sommersi o a pelo d’acqua, ancora più efficienti di quelli terrestri. Nell’era della crisi climatica, l’antropocene, il ruolo del mare e del blue carbon diventa quanto mai critico. Tanto da indurre le Nazioni Unite a lanciare una iniziativa di portata epocale.

Mangrovie: una difesa naturale ben articolata
Nel libro ‘I misteri della giungla nera‘ Salgari ci descrive una foresta impenetrabile, popolata quasi esclusivamente da insidie. Si riferisce alle Sundarbans, nel delta del Gange, un’area di circa 10.000 Kmq tra India e Bangladesh. Non essendoci mai stato, e non avendo nozioni di botanica, Salgari le immagina fitte di bambù. In realtà si tratta della foresta di mangrovie più grande del mondo. In quel punto l’immensa massa d’acqua dolce del Gange, ramificandosi in mille canali, incontra il Golfo del Bengala. È l’habitat ideale per 450 specie animali, tra cui 290 di uccelli. Un patrimonio naturale protetto dall’Unesco ma iscritto nella Lista Rossa IUCN degli ecosistemi in pericolo.

Le foreste di mangrovie sul pianeta coprono un’area di circa 150.000 Kmq, una frazione minima delle grandi foreste pluviali, ma nel catturare il carbonio sono molto più efficienti: anche cinque volte tanto a parità di superficie. Il carbonio sottratto all’acqua e all’atmosfera viene utilizzato dalle piante durante l’accrescimento e sepolto nei sedimenti anche a grande profondità. La loro distruzione comporterebbe la reimmissione nell’atmosfera del carbonio sequestrato. E la perdita di un habitat insostituibile per specie marine e terrestri. Se le fronde delle mangrovie ospitano gli uccelli marini, le radici offrono protezione a larve, avannotti e piccole creature che trovano rifugio e nutrimento nella intricata rete arborea. Ma il loro ruolo non si esaurisce qui: il potere filtrante delle mangrovie permette ai coralli di prosperare. Azoto, nutrienti, sedimenti e altre sostanze, se non filtrate da questi ecosistemi, ucciderebbero all’istante le barriere coralline limitrofe. Le coste delle regioni tropicali sono costellate di questi piccoli o grandi capolavori. Ma l’essere umano li ritiene per lo più un intralcio.

Luoghi difficili da abitare
Nell’immaginario collettivo le foresta di mangrovie sono ancora associate alla presenza di zanzare, a lagune insalubri e a vie d’acqua impraticabili per le imbarcazioni moderne. Occupano spazi che molti vorrebbero rendere edificabili. Sostanzialmente le mangrovie creano dei grossi fastidi a quello che molti ritengono sviluppo, e il loro legname è anche ottimo da ardere. Tanto da diventare una delle maggiori voci nell’economia delle Sundarbans, malgrado la protezione dell’Unesco. L’altro nemico è il riscaldamento globale. Le mangrovie amano le lagune e le acque calme, ma l’innalzamento dei mari permette alle onde di superare le barriere naturali e di irrompere con più frequenza in specchi d’acqua un tempo tranquilli. Con dei seri contraccolpi sullo stato delle coste. I dati raccolti dopo lo Tsunami del 2004 in Indonesia dimostrano che i tratti che ospitavano dune e mangrovie hanno subito i danni minori. E uno studio pubblicato nel 2020 dalla Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, evidenzia la capacità delle mangrovie di mitigare gli effetti degli uragani sulle coste e sulle economie locali.

Gioielli verdeblu alle nostre latitudini
L’oasi faunistica di Vendicari, in Sicilia, è uno dei massimi esempi italiani di quanto non valga mai la pena bonificare. Le paludi salmastre o di marea, quelle sopravvissute, oggi sono quasi tutte oasi faunistiche protette. Costituiscono spesso dei veri e propri bottleneck, o delle soste obbligate, lungo i percorsi migratori di innumerevoli specie di uccelli. Come le foreste di mangrovie, le paludi di marea suscitano le stesse resistenze ancestrali per la loro scarsa abitabilità. Sono spesso viste come terreni tolti all’agricoltura, o all’acquacoltura. Come le mangrovie sono minacciate dall’innalzamento dei mari e da molteplici attività umane, come l’inquinamento dei corsi d’acqua, incendi e manomissioni del territorio. Anche questi ecosistemi proteggono le coste dall’erosione, catturano il carbonio e lo consegnano ai sedimenti e al sottosuolo con una grande efficienza, e la biodiversità che ospitano, impossibile da egugliare in altri ambienti costieri, genera una forte attrattiva turistica.
Ma il lavoro del blue carbon, lento, complesso e sottovalutato, non si esaurisce in superficie. Prosegue non visto nei fondali marini grazie a un percorso evolutivo molto singolare.
L’importanza delle praterie sottomarine
Circa 450 milioni di anni fa alcune alghe si stabilirono dal mare in terraferma, dando origine alle piante terrestri. Ma alcune di loro, delle fanerogame, anticipando il percorso evolutivo dei mammiferi marini, tornarono in mare e vi si adattarono perfettamente. Tra le specie che circa 80 milioni di anni fa intrapresero il viaggio a ritroso c’è anche la posidonia. Il loro habitat varia dal piano mesolitorale, ovvero l’area dell’escursione di marea, ai circa 60 metri di profondità, purché vi sia luce sufficiente per permettere la fotosintesi. Stimare l’estensione globale di queste praterie è un compito arduo: le aree mappate documentano una superficie di circa 180.000 Kmq, poco più di quella occupata dalle mangrovie. Ma considerando le aree adatte al loro sviluppo si potrebbe ipotizzare una superficie di ben 4 milioni di chilometri quadrati, più di quanti ne ricopre (per ora) la foresta amazzonica in Brasile.

Il loro ruolo nell’intero ecosistema marino è paragonabile a quello delle barriere coralline. La posidonia, la thalassia, l’halophila stipulacea – penetrata nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez – ed altre innumerevoli specie, tornando in mare hanno costruito vere e proprie nursery, nidi d’infanzia per le creature marine che un giorno affronteranno il mare aperto. Ma anche habitat permanente per piccoli molluschi e crostacei, cibo per tartarughe marine e per pesci erbivori.
Il loro effetto protettivo sulle coste parte in profondità; l’onda, trovando resistenza, rallenta e il fondale trattenuto da una fitta rete di radici resta immobile e compatto. La produzione di ossigeno di queste piante nella colonna d’acqua è proporzionale allo stoccaggio del carbonio. La loro efficienza, a parità di superficie, è doppia rispetto alle foreste pluviali: sequestrando ogni anno quasi 30 milioni di tonnellate di carbonio dal mare contribuiscono a circa il 10% del totale.
Purtroppo queste preziose praterie si stanno deteriorando alla velocità di due campi di calcio ogni ora. Contro il loro benessere (e il nostro) sono in azione l’aumento delle temperature, che ne rallenta l’accrescimento, la torbidità delle acque che ne limita la fotosintesi, le ancore delle barche e metodi di pesca distruttivi. Infine, la rimozione dei loro migliori alleati: i predatori d’apice.
Sotto lo sguardo vigile della tigre
Lo studio del fenomeno ecologico delle cascate trofiche evidenzia che i predatori d’apice influenzino l’ambiente più di ogni altra categoria. Con l’introduzione del pesce coniglio nel Mediterraneo siamo stati testimoni di un evento scioccante: la decimazione dei vegetali autoctoni in tutto il settore sud orientale. Non è solo colpa di Suez e del riscaldamento del Med, è anche colpa della pesca. L’aver rimosso fino al 90% della popolazione dei predatori ha favorito gli erbivori. L’invasione del pesce coniglio ricorda molto da vicino ciò che è successo nei boschi e nelle praterie di superficie. Illuminante è il saggio di George Monbiot, Rewilding (malamente tradotto in Italiano con Selvaggi) quando ci spiega come le pecore e i cervi abbiano stravolto l’ambiente naturale delle isole britanniche. Una volta eliminata la concorrenza dei predatori è stato fatto spazio agli erbivori, i quali hanno stravolto l’ambiente naturale.

In mare esistono molteplici fenomeni speculari a quelli terrestri. Le tartarughe verdi, grazie alla protezione, stanno uscendo dall’incubo dell’estinzione, ma il calo drammatico degli squali tigre le induce a comportamenti infestanti. L’influenza dei predatori sugli erbivori è cruciale quanto non sostituibile da un cacciatore umano. Il predatore naturale non si limita, come si è portati a credere, a tenere sotto controllo il numero di individui, ma influisce anche sull’evoluzione, sulla salute dei branchi e, soprattutto, sulle abitudini delle prede. Numerosi studi confermano che gli squali tigre sono gli alleati più efficaci delle praterie sottomarine.
La loro presenza inibisce l’overgrazing, ovvero uno sfruttamento dannoso da parte degli erbivori – in questo caso soprattutto dugonghi e tartarughe verdi – del manto erboso. Tornando alle mangrovie, i loro migliori ospiti sono gli squali pinna nera di scogliera, che ottengono riparo tra le radici durante lo stadio giovanile e contraccambiano controllando gli erbivori, i peggiori nemici degli steli.
Blue Carbon tradotto in soldoni
Dalla fine degli anni ottanta in poi la visione neoliberal del mondo impone a scienziati e ricercatori di trovare una soluzione economicamente sostenibile a qualsiasi proposta di conservazione, e di stimare le ripercussioni del danno ambientale sulle economie. I governi, sollecitati dalle Nazioni Unite, per contrastare lo sconvolgimento del clima e della distruzione della natura si sono dotati di strumenti, sempre di carattere economico, per mitigare il danno. Tra questi ci sono i Carbon Credits.
Si tratta di certificati negoziabili, titoli equivalenti ad una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie ad un progetto di tutela ambientale realizzato con lo scopo di ridurre o riassorbire le emissioni globali di gas serra. Il loro utilizzo è stato esteso a progetti di conservazione di ecosistemi marini e costieri.
Un valido orientamento è nel contenuto di uno studio condotto da più di trenta ricercatori e pubblicato su Nature “The future of Blue Carbon science”. La conservazione di questi ecosistemi e il mantenimento della loro efficienza non solo evita la remineralizazione (l’immissione nell’atmosfera delle riserve di carbonio sequestrato) ma garantisce la capacità di sequestro per il futuro. Per aumentare le superfici di questi ecosistemi sono necessari numerosi interventi. Alcuni di questi prevedono scavi per ripristinare l’idrografia preesistente, e la restituzione degli stagni di acquacoltura agli ecosistemi originali. Queste azioni proteggerebbero le coste dalle inondazioni e garantirebbero l’accesso ai famosi crediti di carbonio, uno strumento – sottolinea lo studio – spesso incompreso o sottovalutato dai governi. ‘Le basi e le conoscenze per intraprendere questo percorso e per utilizzarlo come risorsa – concludono i ricercatori – ci sono tutte: ora la decisione spetterà ai governi.’
Sperando che riescano a comprenderne i contenuti e a liberarsi dal vincolo delle lobby. Auguriamoci anche di non vedere mai più mangrovie e canneti in fiamme.