La Terra diventa sempre più calda, ed ancora non siamo riusciti, o non vogliamo, trovare la soluzione a quella che è diventata l’emergenza del ventunesimo secolo: più del 40% della superficie delle terre emerse è ormai coperta da deserti, e secondo il WWF da qui al 2050 saranno almeno 700 milioni le persone colpite dalla siccità. Diverse le soluzioni finora proposte per sconfiggere il cambiamento climatico: nonostante la mobilitazione generale, si allontana l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi.
C’è chi guarda in alto, forse anche troppo, come i fautori della geoingegneria solare, una tecnologia nella quale si è dichiarato pronto ad investire il Presidente degli Statui Uniti Biden, dove uno scudo artificiale fatto di bolle di gas dovrebbe deflettere i raggi del sole abbassando la temperatura terrestre. E c’è chi invece ha scelto di concentrare l’attenzione su una risorsa molto più economica e immediatamente disponibile: il suolo sotto i nostri piedi.
La “soil solution”
Nello scorso articolo (L’American Corn Belt verso la Pluricoltura) si è parlato di come pratiche quali le monocolture danneggino gravemente l’ambiente, rendendo sterile la terra, distruggendo ecosistemi, riducendo la biodiversità e partecipando al processo di desertificazione. E la desertificazione è un avversario a doppia faccia: a provocarla, è la siccità dovuta alla drastica riduzione delle precipitazioni, ma anche sono gli stessi terreni inariditi che, sempre più poveri di vegetazione, diventano complici del rilascio di CO2 nell’atmosfera, accelerando il cambiamento climatico.
Ed è su questo punto che molti scienziati, più orientati all’approccio NBS (Nature Based Solution), che prevede la gestione delle risorse naturali per affrontare le sfide ambientali, hanno voluto insistere: la soluzione al riscaldamento del pianeta potrebbe non trovarsi al di fuori, ma nella terra stessa.
Il suolo terrestre è infatti dotato di una capacità rigenerativa chiamata biosequestro: un processo di scambio che ha il carbonio come valuta. Quest’elemento è la fonte della vita sulla Terra. Qualsiasi cosa noi esseri viventi facciamo, sia che respiriamo, sia che guidiamo una macchina o produciamo attraverso le fabbriche, emettiamo diossido di carbonio nell’atmosfera. Questo viene poi catturato dalle piante, che a loro volta lo utilizzano come nutrimento e immagazzinano il carbonio nelle radici. Qui, piccoli microrganismi lo lavorano e lo trasformano in humus e nutrimento per le piante. Gli animali, in seguito, lo assumono attraverso queste piante e così il ciclo ricomincia.
Il ciclo del carbonio e il biosequestro hanno un potenziale enorme per la lotta al cambiamento climatico: le piante funzionano infatti come veri e propri filtri che depurano l’atmosfera dai gas tossici che le nostre attività producono in continuazione, frenando l’aumento delle temperature.
Clima, acqua e suolo sono collegati: lo abbiamo imparato a scuola, ma da adulti tendiamo a dimenticarlo. Forse è ora di recuperare questa semplice verità. Partendo dall’assunto che un suolo in salute può combattere il cambiamento climatico, dobbiamo impedire che la terra esaurisca la sua energia vitale.

Se la terra si stressa, il clima cambia
Secondo le Nazioni Unite, osservando l’attuale processo di desertificazione, tra 60 anni il suolo coltivabile scomparirà. A rendere sempre più aridi i terreni sono le pratiche di agricoltura intensiva che puntano alla massima produttività trattando la terra come un inesauribile serbatoio alimentare, trascurandone le naturali esigenze. L’aratura pesante sconvolge l’ecosistema del suolo, rendendolo meno permeabile all’acqua e quindi sempre più secco e povero di microorganismi amici dell’agricoltura. Anche i pesticidi e i fertilizzanti chimici indeboliscono la terra, bonificandola dei piccoli invertebrati e dei microbi che la mantengono nutrita, umida e areata.
Ma quello che ancora molti produttori tendono ad ignorare è che un terreno arido non equivale soltanto ad un raccolto più scarso: da solo può diventare la causa del cambiamento del microclima locale, insieme a tutta la superficie coltivabile del pianeta, può influenzare il macroclima e provocare il surriscaldamento globale.
Il suolo arido infatti, tende a non assorbire in profondità l’acqua, ma a lasciarla evaporare nell’atmosfera. Venendo a mancare il fondamentale processo di traspirazione da parte delle piante, che rende l’aria umida, sopra un terreno secco non si formano più le nuvole, le piogge diventano sempre più rare, si allarga il quadrante di siccità. Un pezzo di terra brullo risulta inoltre più caldo di giorno e più freddo di notte rispetto allo stesso pezzo di terra ricoperto da vegetazione, e questo grazie all’effetto delle piante che proteggono il suolo dai raggi solari.
E i campi sempre meno verdi non sono più in grado di regalare ossigeno, ma rilasciano il carbonio che in origine era immagazzinato nelle radici delle piante. È così che il clima cambia.
Ma non tutto è perduto: in molti casi un terreno spogliato delle sue risorse può rigenerarsi, se chi se ne occupa è disposto ad “ascoltare” i suggerimenti che la natura stessa offre.

Un terreno sano è un pianeta sano
Il benessere della Terra inizia, letteralmente, dal benessere della terra. Prendersi cura di questi potenziali “silos” di carbonio è il primo passo per combattere il cambiamento climatico. Nel documentario Kiss the ground si può seguire il percorso di molti scienziati che cercano di portare coscienza tra gli agricoltori, mostrando come le loro tecniche compromettano anche il benessere di tutti, oltre che i loro guadagni. È partendo da contesti anche piccoli, locali, che si possono ottenere grandi risultati.
Oltre alle pratiche di riforestazione, esistono dei tipi di agricoltura rigenerativa che si basano sul rispetto del tempo ciclico della natura e sfruttano i rapporti di scambio tra esseri viventi. Nel particolare, si tratta in primis di evitare, ovviamente, il dissodamento invasivo delle zolle di terra attraverso l’aratura. Piuttosto vengono utilizzati degli specifici trattori che piantano il seme direttamente nel terreno, senza smuovere la zolla.

Inoltre, si evita anche l’utilizzo di composti chimici, lasciando che le piante crescano secondo il loro ritmo; e si diversificano le colture, tutelando la biodiversità a discapito delle monocolture.
Infine, il bestiame viene fatto pascolare cambiando in continuazione l’acro di terra su cui bruca, poiché se lo si lascia troppo tempo sullo stesso territorio – come avviene negli allevamenti intensivi – erode la terra, consumando le piante fino alle radici e indebolendo il terreno. Se, invece, si applica una rotazione, i terreni hanno il tempo di rigenerarsi grazie ai microbi che aumentano la crescita delle piante. Tutto ciò ha un notevole impatto sui nostri campi. Non si assiste più al triste spettacolo di un’arida distesa desolata e priva di vita, ma a un mare verde di erba.

In conclusione, il cambiamento di cui abbiamo bisogno per cercare di invertire il processo di desertificazione non prevede che l’essere umano si ingegni alla ricerca di nuove tecnologie che modifichino ancora di più l’ecosistema e l’equilibrio della natura; ma al contrario si richiede che limiti il suo intervento, rispettando la biodiversità, e lasciando respirare la terra affinché essa possa lentamente rimarginare le ferite che ha aperto, ma che possono ancora essere guarite.
