Il mare assorbe gran parte del calore e della CO2 prodotti dalle attività umane, ma questo grande termoregolatore del pianeta ci sta restituendo il carbonio a causa dell’interferenza di un’attività già di per sé distruttiva: la pesca a strascico.

Uno studio pubblicato su Nature ha calcolato per la prima volta l’impatto climatico di questo metodo di pesca che consiste nel trascinare pesanti reti sui fondali marini. Le conclusioni sono allarmanti: la quantità di anidride carbonica liberata da questa pratica è paragonabile alle emissioni prodotte dall’aviazione civile su scala globale. E tra i 10 paesi più inquinanti al terzo posto c’è l’Italia, dopo Cina e Russia. La pesca a strascico, secondo quanto rilevato dalla ricerca, emette dai 600 ai 1.500 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, contro i 918 milioni prodotti dal trasporto aereo globale nel 2019. I danni di questa attività (ne abbiamo già scritto in questo magazine qui: https://www.imperialbulldog.com/2018/05/29/il-green-nobel-alla-donna-che-cambio-il-volto-della-pesca-in-europa/) non si limitano dunque al depauperamento della fauna marina, né alla distruzione dell’habitat e della morfologia dei fondali; oggi sappiamo che viene pesantemente intaccato anche il ciclo del carbonio, con effetti sul clima e sull’acidificazione degli oceani.
I fondali marini sono letteralmente pavimentati da sedimenti d’origine organica
Si tratta di corpi in decomposizione o già decomposti di molluschi, mammiferi marini, pesci, crostacei e altri invertebrati, ma soprattutto di esseri vegetali, come alghe e fitoplancton. Questo movimento incessante verso il basso permette di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera e dalla colonna d’acqua seppellendola in fondo al mare, alimentando la vita di profondità e controllando il clima su una scala di grandezza geologica. Le riserve di carbonio organico negli ecosistemi vegetali marini sono di gran lunga superiori a quelle delle foreste terrestri. Anche se ricoprono solo il 2% dei fondali, questi ecosistemi riescono a immagazzinare la metà del carbonio presente nei sedimenti. La loro capacità di cattura del carbonio è 10 volte superiore a quella delle foreste nei climi temperati e 50 volte a quella delle foreste tropicali. La più grande riserva di carbonio del nostro pianeta, circa 36.000 miliardi di tonnellate, è seppellita in fondo al mare. Una riserva che, se lasciata indisturbata, può rimanere sul fondo per millenni. La pesca a strascico rimette in circolazione quel che il mare aveva laboriosamente tolto all’atmosfera, vanificando gli sforzi messi in atto in superficie per la mitigazione del clima. Tuttavia lo studio, considerato già una pietra miliare nella comprensione delle nostre interferenze su scala planetaria, non si ferma all’allarme ma offre delle soluzioni al problema.
Un algoritmo per chi è capace di ascoltare
Enric Sala, a capo della ricerca pubblicata su Nature, è uno dei volti narranti più noti al pubblico. Con un dottorato in Biologia a Barcellona e uno in Ecologia a Marsiglia lascia la vita accademica per dedicarsi all’ambiente marino sul campo e diventa Explorer in residence del National Geographic. Tra le innumerevoli ricerche condotte forse è questa la più rivoluzionaria, non solo per le scoperte ma anche per le soluzioni.

Enric Sala e altri 25 ricercatori appartenenti a diverse discipline, climatologi, biologi ed economisti, hanno iniziato a raccogliere dati, immagini satellitari e ad elaborarli. La prima cosa che notano è che almeno 750 milioni di tonnellate di CO2 sui 900 e passa, provengono dalla pesca a strascico nelle zone economiche esclusive (ZEE) della Cina, poi dalle ZEE di Russia e Italia. Seguono Regno Unito, Danimarca e Francia. I ricercatori non si sono fermati alla constatazione del danno. Una volta identificato le aree marine più critiche hanno sviluppato un algoritmo per identificare le regioni in cui la salvaguardia offrirebbe i maggiori benefici con in mente tre elementi cruciali:
1 – protezione della biodiversità
2 – produzione di prodotti ittici
3 – mitigazione del clima.
L’espansione delle AMP in acque nazionali fortemente sfruttate potrebbe ridurre significativamente l’impronta di carbonio
Aggregando i dati raccolti tra il 2016 e il 2019 i ricercatori hanno stimato che ogni anno vengono letteralmente arati 4,9 milioni di kmq, ovvero l’1,3% dei fondali marini globali. Sono state quindi individuate delle aree specifiche le quali, se protette, salverebbero oltre l’80% dell’habitat di specie critiche, ma non solo; la loro salvaguardia risulterebbe in un forte incremento del pescato: oltre 8 milioni di tonnellate in più all’anno. La ricerca ha prodotto un progetto pratico, utilizzabile dai governi a seconda delle loro priorità.

“Non esiste un’unica soluzione migliore per salvare la vita marina e ottenere questi altri benefici – ha dichiarato uno dei ricercatori – la soluzione dipende da ciò che interessa alla società o a un determinato paese e il nostro studio fornisce un nuovo modo per integrare queste preferenze e trovare strategie di conservazione efficaci”,
Dott. Juan S. Mayorga, Environmental Market Solutions Lab, Pristine Seas, National Geographic Society.
Lontani dagli obiettivi. Se l’obiettivo mancato era quello di salvaguardare almeno il 10% delle aree marine e costiere entro il 2020, l’analisi mostra che il 30% è la superficie minima di mare che il mondo intero deve proteggere, confermando l’obiettivo per il 2030. Purtroppo la creazione di aree marine protette ad hoc e di fermo della pesca continuano a scontrarsi con vecchie mentalità, e gruppi di pressione. Aprendo una parentesi che prende spunto dallo studio, finora abbiamo assistito alla proclamazione di immense aree marine protette da parte del regno Unito e della Francia intorno ai loro ‘territori d’oltremare’, ma per quanto siano i benvenuti, migliaia di chilometri quadrati contigui di oceano in aree remote vanno letti più come un atto malcelatamente espansionistico che come un pratico, genuino gesto di conservazione.
Lo studio dimostra infatti che più del 75% della CO2 viene emessa lungo le aree costiere, in acque nazionali o ZEE presso i paesi più sviluppati. Duro da digerire per i governi e per molte popolazioni che caparbiamente, quanto irragionevolmente, si oppongono alle AMP. Il mare, quando viene lasciato in pace, dimostra una sorprendente capacità di ripresa. Un esempio funzionale e ben gestito è quello della AMP di Ustica (https://www.imperialbulldog.com/2017/11/21/segreto-delle-aree-marine-protette-consenso-turismo-controllo/), dove i pescatori ottengono vantaggi concreti dal rispetto delle regole e dall’imposizione delle zone. In mare la ripresa è evidente già due o tre anni dopo l’applicazione delle protezioni. Una velocità notevole, se pensiamo che per ottenere la stessa abbondanza e biodiversità sulla terraferma occorrono dai dieci ai venti anni.
I dati sulla capacità del mare di rigenerarsi sono ormai certi, diffusi e condivisi. Resta un mistero come le lobby della pesca, con un peso politico minimo, se paragonato a quello delle lobby del petrolio, riescano a tenere in pugno opinione pubblica e governi contro la creazione di aree marine protette ‘domestiche’. Per anni si è ripetuto un solo mantra: si pesca meno per colpa dell’inquinamento. In realtà il più grande nemico della pesca, sostiene Enric Sala, è la pesca.
La soluzione è nelle mani dei paesi più sviluppati
Lo studio ha appurato che i 10 paesi responsabili delle maggiori emissioni di carbonio dalla pesca a strascico sono nell’ordine: Cina, Russia, Italia, Regno Unito, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Croazia e Spagna, ma ha anche evidenziato che per eliminare il 90% dei rischi basterebbe applicare una protezione totale al 3,6% delle superfici marine, contenute per la maggior parte all’interno di ZEE. In questa ottica, sostengono i ricercatori, il più alto potenziale per la soluzione del problema è nelle mani dei paesi più sviluppati. Le aree da proteggere sono state identificate per lo più dove le riserve sottomarine di carbonio e le minacce antropogeniche sono più alte, come presso le zone costiere europee e dell’Atlantico, le ZEE della Cina e altre aree soggette all’upwelling, fenomeno per cui le correnti marine portano in superficie i sedimenti dalle acque profonde. Lo studio, in una nota, fa cenno al deep-sea mining (attività di estrazione mineraria sul fondo del mare) come una minaccia emergente ai sedimenti, ma della quale non si conosce ancora l’impatto in quanto l’industria si è sviluppata solo recentemente.
Nella tana del lupo
La COP 15, conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima e la biodiversità, avrebbe dovuto tenersi a maggio, ma è slittata ad ottobre a causa dell’emergenza Covid-19. Tra gli argomenti sul tavolo c’è la protezione del 30% delle aree marine globali, cui questo studio offrirà un imprescindibile sostegno.

Si terrà a Kunming, in Cina, nel paese che pesca più di tutti al mondo e la cui flotta è spesso al centro di gravi violazioni (https://www.imperialbulldog.com/2020/09/07/flotta-da-pesca-ombra-scoperta-da-una-ong-grazie-ai-satelliti-e-allintelligenza-artificiale/). Gli autori dello studio sanno di aver fornito non solo dei dati, ma strumenti efficaci per i governi nel prendere delle decisioni tenendo conto delle loro priorità sul piano delle esigenze alimentari, commerciali e delle azioni di mitigazione dell’emergenza climatica nei rispettivi paesi. Oggi chiunque sia interessato o semplicemente informato sull’ambiente marino condivide l’opinione che uno stop alle pratiche distruttive e l’implementazione delle AMP siano una soluzione valida tanto per il mare quanto per la pesca. Queste soluzioni possono contribuire anche agli sforzi nel porre un freno all’emergenza climatica. Se ne accorgeranno, i decisori? Staremo a vedere.
Per approfondire:
Suggeriti: