I guardiani dell’arcipelago

La vastità delle acque indonesiane è tale che il loro controllo è delegato ai volontari. Sono essi stessi pescatori e contrastano la pesca distruttiva, dei bracconieri e delle navi senza permessi. Si chiamano Pokmaswas e rappresentano una nuova visione.

Pokmaswas | © Dugong Seagrass

Molti anni fa, mentre con un pinisi veleggiavamo verso Taka Bonerate, un grande sistema di reef a sud di Sulawesi, ci imbattemmo in un tizio armato. Era un civile, per di più europeo. Se ne stava sul pontile con un AK 47 in spalla, i capelli lunghi che gli scendevano su una canottiera lisa. Sembrava uscito da un adattamento moderno di un romanzo di Conrad. Era autorizzato dal Parco Marino, o dalla guardia costiera. “Pescano con la dinamite” ci disse. L’attrezzo che gli pendeva dalla spalla bruciata serviva a dissuadere i pescatori di frodo. Per diversi giorni non incontrammo nessun altro essere umano. Poco più a sud ci immergemmo lungo una parete.

“Solo le pareti sono rimaste intatte da queste parti” ci disse lo skipper prima dell’immersione, “perché qui non possono pescare con la dinamite, più della metà dei pesci affonderebbe. I bracconieri preferiscono fondali bassi, dove raccolgono i pesci morti con le reti, o con le mani.”

Pesca illegale con dinamite | © WCS Indonesia
Effetti devastanti

L’effetto di quel sistema criminale di pesca lo vedemmo lungo una cigliata poco profonda, dove si ammassava un nutrito gruppo di pesci pappagallo gigante. L’intero gradino, peraltro esteso, era ricoperto di cilindretti bianchi. Erano frammenti di acropore millepora, acropore cervicorno, di coralli tavolo sbriciolati. L’intero plateau sembrava un ossario. Non avevo mai avuto, osservando un fondale marino, una così netta visione di morte. I frammenti rotolavano avanti e indietro nella risacca, impedendo a rizomi e larve di attecchire. Ogni sforzo della vita marina veniva vanificato da quel movimento.

Reef distrutto dalla pesca con dinamite, Komodo National Park – Indonesia | © Michael Patrick O’Neill

Ne incontrammo altri, di reef in quelle condizioni. Quello più inaspettato ci attendeva in mezzo al mare. Un puntino sulla carta nautica indicava una secca senza nome. Le batimetrie ci suggerivano si trattasse dell’apice di un vulcano sommerso. L’intero lato ovest era stato rasato dalle reti e dalla dinamite, solo il lato est restava intatto, di una bellezza e ricchezza straordinarie. Era, allora, un reef estremamente remoto.

Taka Bonerate – reef

Capii in quel frangente che erano proprio quei luoghi ad essere i più esposti al pericolo, capii che isole e atolli disabitati, barriere remote, diventavano facilmente luoghi di scorribande, in alto mare i crimini erano destinati a rimanere impuniti.

Takabonerate – Sulawesi

In quella zona, desolata, nel sistema di Taka Bonerate, i ranger del parco marino sorvegliavano un’ampia porzione del vasto dedalo bianco e turchese dall’alto di una palafitta.

“A volte non hanno la benzina” disse lo skipper.

5,8 milioni di chilometri quadrati

Molti anni dopo, al problema della pesca di frodo locale se n’era aggiunto un altro: la crescente domanda di prodotti ittici mondiale e il depauperamento delle aree costiere asiatiche aveva spinto pescatori vietnamiti, filippini e thailandesi a pescare in acque indonesiane. Ma controllare le acque di quell’immenso arcipelago che si allunga dallo stretto di Malacca fin quasi al nord dell’Australia, non può essere un’impresa facile. 5,8 milioni di chilometri quadrati, a tanto ammonta la Zona Economica Esclusiva indonesiana, corrispondono al 60% del suolo degli Stati Uniti. L’impossibilità di esercitare controlli capillari porta inevitabilmente ad un inasprimento delle pene. Nel 2014 il presidente Joko Widodo, appena eletto non esita a utilizzare il pugno di ferro.

Parco Nazionale di Taka Bonerate

Sa di avere a disposizione solo 78 imbarcazioni per reprimere le attività di pesca illegale e impone l’affondamento, dopo aver trasbordato l’equipaggio, di tutte le imbarcazioni che violano la legge o sorprese senza permesso. Tra il 2014 e il 2016 vengono fatte esplodere 187 imbarcazioni da pesca. Ma quel metodo si rivela subito pericoloso per l’ambiente. Nel 2016 il carburante contenuto in una delle barche affondate si riversa sulle spiagge sotto forma di marea nera. C’è bisogno di un cambio di metodo. Si decide di sospendere gli affondamenti e procedere con il sequestro, ma mantenerle anche da ferme, è costoso. Gli spazi nei porti costano e le imbarcazioni sono in pessimo stato. Senza manutenzioni agli scafi e alle prese a mare alla lunga rischiano di affondare lo stesso. Inoltre il governo non vuole lasciare alcuna speranza, in un’amnistia o in una conversione in multa, che in un futuro possano facilitare il dissequestro delle imbarcazioni. Decide per il pugno di ferro contro la pesca illegale, ma stavolta le barche saranno colate a picco dopo una bonifica. L’iniziativa guadagna il plauso di Seashepherd e delle organizzazioni ambientaliste. Come sanno bene subacquei e altri addetti ai lavori, i relitti da tristi rottami senza vita si trasformano presto in barriere coralline artificiali, capaci di ospitare e di offrire riparo a innumerevoli specie di pesci, molluschi, crostacei e antozoi. Il mare se ne impossessa per riportarvi la vita.

Pokmaswas | © Dugong Seagrass
I Pokmaswas

La situazione non migliora. La pesca illegale, gli sconfinamenti, continuano e al problema si aggiunge quello del riscaldamento degli oceani, che impoverisce le barriere coralline e stravolge gli habitat. Le catture diminuiscono del 20%. Le comunità maggiormente colpite sono proprio quelle di pescatori locali, che si vedono depredare delle loro risorse spesso da flotte tecnologicamente più avanzate, con capacità distruttive che lasciano i loro segni nel tempo. La qualità e la quantità dei controlli peggiorano: del 2015 al 2019 i tempi di pattuglia da parte delle autorità diminuiscono da 270 giorni a soli 84.

Pescatori – Indonesia

I pescatori locali, quasi essenzialmente pescatori artigianali chiedono di avere un ruolo attivo nel contrasto all’illegalità. Va rivisto totalmente il sistema e viene fondato un corpo di volontari civili, i Pokmaswas, con compiti di monitoraggio e controllo. L’Indonesian Climate Change Trust Fund, una trust sostenuta dalla Banca Mondiale interviene con gli investimenti. Fa seguito USAID, United States Agency for International Development, che in Mar Rosso aveva già sostenuto un’iniziativa di grande successo: l’HEPCA, Hurghada Environmental Protection and Conservation Association, attiva nell’installazione di boe d’ormeggio, distintasi nella protezione di delfini e tartarughe, ma soprattutto nel coinvolgimento delle comunità locali. La partecipazione attiva di popolazioni consapevoli e motivate, secondo i dirigenti, raggiunge il massimo livello d’efficacia. Le loro attività includono: partecipazioni a monitoraggi indipendenti o con le varie istituzioni e agenzie, fornire suggerimenti e feedback, indicare linee guida, esortare le aziende locali a seguire le regole, segnalare violazioni, eseguire arresti.

Taka Bonerate | © Taka Bonerate National Park Hall

Tutto ciò con la copertura legale di un mandato governativo. Nelle comunità si formano gruppi, con capacità di monitoraggio e d’intervento che includono pescatori e piscicoltori ma anche capi tribù e capi religiosi. I volontari vengono educati alla comprensione dei problemi relativi alle risorse marine, alla loro gestione e alle tecniche di salvaguardia e intervento. Nel distretto di Nusa Tenggara insieme al WWF partecipano al Dugong Seagrass Conservation Project, un’iniziativa atta a preservare l’habitat dei dugonghi, le praterie marine. A Raja Ampat invece si occupano attivamente di reprimere la pesca illegale, la pesca con la dinamite, con lo strascico, e di controllare i permessi delle imbarcazioni. Nasce, in sostanza un corpo di ranger su base volontaria coinvolto nella protezione delle risorse marine. Al momento in Indonesia sono attivi 2,945 gruppi Pokmaswas che coprono ben 34 province.

Parco Nazionale di Taka Bonerate
Una nuova visione

Come professionista della subacquea, e quindi attore economico informato, ho assistito alla nascita e partecipato alla promozione di alcune iniziative simili, i cui scopi erano il monitoraggio e la sorveglianza su base comunitaria. Alcune non ce l’hanno fatta, per la burocrazia, le leggi locali o per mancanza di coesione d’intenti nella comunità. Quando si riesce in imprese del genere è quasi sempre un miracolo, ma questo miracolo contiene qualcosa di più. Contiene una nuova visione sul futuro dei mari e sulle prospettive umane davanti al problema della conservazione.

Pokmaswas | © kaimananews.com

Con i Pokmaswas le comunità, e quindi i cittadini, riprendono l’ambiente nelle proprie mani e se ne fanno carico come parte integrante del sistema. Una visione nuova, che si potrebbe estendere alla intera società umana.

 

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