Okinawa: una base militare sui coralli

Ad Okinawa la popolazione si batte contro la costruzione di una base aerea in mare. Il governo locale si è schierato a favore di una protesta che nasce soprattutto da anni di insofferenza.

Base militare aerea americana di Futenma – Okinawa | © AP

Alcuni storici suggeriscono che la disgraziata decisione di sganciare ordigni atomici sul Giappone fu presa mentre ad Okinawa infuriava una delle più atroci battaglie della Storia. Gli alleati avevano riversato sull’isola più uomini di quanti ne avevano mandati all’assalto in Normandia e la battaglia fu così violenta che il termine Tempesta d’acciaio fu coniato in quell’occasione. Dopo due mesi e tre settimane d’inferno erano rimasti uccisi circa centomila soldati, per i tre quarti giapponesi, ma tra suicidi, bombardamenti e atrocità avevano perso la vita centocinquantamila civili, metà della popolazione residente. L’isola fu occupata e restò tale per quasi trent’anni, f ino al 1972 quando la sovranità ritornò al Giappone, ma le basi militari restarono. Oggi ad Okinawa gli Stati Uniti hanno le basi forse più importanti, quelle che guardano il Mar Cinese Orientale.

Okinawa
Convivenza difficile

Le prime basi americane vennero costruite spianando colline, abitazioni e terreni privati.

Oggi le basi americane che insistono sul suolo della prefettura di Okinawa sono 31 e come superficie occupano il 70% del totale del suolo di tutte le basi in Giappone. Il rumore di jet militari e di elicotteri che volano bassi diventa una consuetudine per gli abitanti. Fosse solo questo il problema; nel 1959 un F-100 si schianta nei pressi di una scuola elementare, la Miyamori Elementary School, ferendo 17 persone anche tra i bambini. Nello stesso anno parte per sbaglio un missile Nike Hercules, ma gli incidenti si intensificano dal 2004, quando un elicottero Sea-Stallion si abbatte sull’università, fortunatamente senza vittime tra i residenti.

Flotta Americana al largo di Okinawa – 1 Aprile 1945 | © picture alliance / Everett Colle

Dal dopoguerra in poi i velivoli americani che si schiantano su Okinawa sono 47.

E poi l’atteggiamento dei militari. Casi di violenza e un femminicidio scatenano proteste, portando decine di migliaia in piazza. Nel 2020, dopo i festeggiamenti del 4 luglio in una base, riparte il Covid-19 in un’isola virtualmente ignorata dalla pandemia. I militari non si erano sottoposti al tampone, né alla quarantena, non indossavano le mascherine. E ancora, a ottobre dello stesso anno una fuoriuscita di migliaia di litri di schiuma antincendio inquina le falde acquifere e l’incidente coinvolge 450.000 abitanti, un terzo della popolazione totale.

Ma è sullo spostamento della base aerea di Futenma che la Prefettura di Okinawa intraprenderà una battaglia legale contro il governo di Tokyo .

Un referendum disatteso

Nel 1996 gli americani hanno necessità di spostare la loro Marine Corps Air Station da una zona densamente abitata alla baia di Henoko, al nord dell’isola. È un piano che coltivano dagli anni ’60, come dicono alcuni rapporti desecretati.

Lavori per la costruzione della Base militare nella Baia di Henoko – Okinawa | © Kyodo

Nelle loro intenzioni c’è la costruzione di un bunker dove poter stipare anche armi atomiche e una pista di decollo lunga 3000 metri. Per ottenere tutto quello spazio devono strapparlo al mare con un terrapieno. In sostanza, cementificare una parte della baia, in punto protetto da un reef esterno, una sorta di laguna che ospita una grande biodiversità, tra coralli e fanerogame marine, l’habitat ideale di dugonghi e tartarughe verdi.

Le autorità propongono di spostare la base fuori dall’isola e dopo anni di trattative nel 2005 la situazione si ribalta: più giunte comunali accettano, elencando i benefici economici per le imprese e l’indotto, bollano le resistenze dei cittadini come ideologiche, ma non riescono a convincere. Nel 2009 viene eletto Primo Ministro del Giappone Yukio Hatoyama, che nella sua agenda ha messo lo spostamento della base fuori dall’isola di Okinawa. Otto mesi dopo si dimette per l’impossibilità di mantenere la promessa. 17.000 persone manifestano contro la base.

Protesta a Henoko Bay contro la base militare statunitense | © Masaya Noda – Greenpeace

Il dugongo, protetto da leggi americane e giapponesi, diventa l’animale simbolo della protesta. Il progetto iniziale subisce delle modifiche: si costruirà dove c’è minor impatto, ma ciò non accontenta. Ad inizio lavori la Prefettura lancia un referendum, schierandosi per lo spostamento della base fuori dall’isola. Il 72% dei votanti sostiene la proposta. Il governo centrale la ignora. Il Giappone, un paese con le forze armate più piccole di quelle italiane, non può dire no agli Stati Uniti, da cui dipende per la difesa. Non in un momento in cui riaffiorano le tensioni, non per la base americana più vicina a Taiwan: appena trecento miglia e ad altrettante dalla costa della Cina.

La protesta si sposta in mare

I lavori non si fermano, il 30% dell’area marina destinata alla base è stata riempita con materiale di ogni tipo, per lo più proveniente dalle demolizioni. Il Giappone deve disfarsi di tanto cemento che altrimenti non saprebbe come smaltire, ma non si ferma neanche la protesta. Ai cittadini di Okinawa si aggiungono altri attivisti da tutto il Giappone, scendono in mare sulle canoe per ostacolare i lavori. Gli uomini della Guardia Costiera cercano di respingerli, entrando in acqua loro stessi. Le loro voci raggiungono le colonne della stampa e delle TV internazionali. Alcuni attivisti iniziano lo sciopero della fame. Per chi conosce, anche minimamente, il Giappone un paese che non si è particolarmente distinto per le cause ambientali, un paese che si è defilato dalla IWC, International Whaling Commision, per continuare a cacciare le balene senza che nessuno abbia battuto ciglio, questo movimento arriva quasi inaspettato.

Il mare come inquietudine

Lungo le rive di Okinawa ci sono dei cartelli. C’è su scritto: Non fare il bagno, pericolo di morte. Ci sono squali. Quella tra i giapponesi e il mare non è una simbiosi, è semmai una competizione. Nelle xilografie di Hokusai e di Hiroshige, artisti del XVIII secolo, il mare è spesso il luogo del caos, della meraviglia che atterrisce.

Il mare non è un amico, ma una dura realtà, un antagonista cui strappare risorse e suolo. Il mare è il luogo che genera invasori. E onde gigantesche. Quanto i giapponesi temano la forza dell’acqua è scritto nel modo in cui irregimentano i canali, i fiumi, le coste, e le spiagge. Ad Amami, seconda isola dello stesso arcipelago, un piccolo gruppo di persone si sta battendo contro la costruzione di un muro di cemento a protezione del villaggio dall’erosione.

Tartaruga verde- Okinawa

Sulla spiaggia nidificano tartarughe verdi e le rarissime tartarughe liuto, inoltre il cemento ostacolerà la dinamica naturale della spiaggia e gli attivisti per contrastare l’erosione hanno piantato dei pandani, piante che consolidano le dune. Sono ancora lì, a combattere, quasi ignorati dai media. Tra loro, come ad Okinawa, ci sono giapponesi che hanno vissuto all’estero, che hanno studiato nelle università delle Hawaii, che hanno deciso di trasferirsi su isole relativamente intatte. Sono loro il motore trainante delle proteste ambientaliste.

Consumo di mare e suolo

Un altro aspetto, temuto della costruzione della base è l’ecosistema che inevitabilmente sorgerà intorno. I militari dagli stipendi più alti non vivono nelle basi, affittano villette o appartamenti in aree residenziali, dando impulso a nuove costruzioni ad uso abitativo e commerciale per ospitare negozi, supermarket e bar. E quindi, consumo di suolo.

Distesa di mangrovie – Okinawa

La deforestazione ad Okinawa è un problema strisciante ma continuo. Centri commerciali, terreni coltivabili e grandi alberghi stanno strappando lentamente, ma inesorabilmente, suolo alla foresta, per di più in prossimità della costa.

Il rilascio di sedimenti in mare è notoriamente causa di morte o indebolimento dei coralli. I sedimenti vengono messi in relazione con gli outbreak di altri killer dei coralli, come la corona di spine, Acanthaster planci, una stella marina che divora chilometri di reef. Ad Okinawa, nei fondali prossimi alle aree deforestate esplode il Terpios hoshinota, una spugna nerastra che distrugge i coralli duri per usarli come substrato.

Cantieri e agricoltura sono nemici del mare, e le piantagioni redditizie non risparmiano i suoi fondali. Okinawa è famosa nel mondo per la coltivazione del mozuku, un’alga prelibata e dalle importanti proprietà nutritive. E commerciali. Lungo i bassi fondali per lo più nell’ovest dell’isola, i filari sono visibili nelle immagini satellitari. È una coltivazione sostenibile, incentivata con fondi governativi per creare un’alternativa alla pesca, ma la sua coltura intensiva sta rischiando di consumare troppo fondale marino a discapito di altre specie. Tra le quali i dugonghi.

Dugongo
Una creatura sfuggente

Sfuggente, elusive in inglese, è l’aggettivo che ricorre più spesso quando si parla o si scrive del dugongo. Nel 2014 l’esemplare, denominato ‘C’, viene fotografato ad Henoko Bay, dove sorgerà la base. È l’ultima volta che viene avvistato direttamente. Le ultime tracce che rivelano la presenza di questo mite erbivoro (quando si nutre lascia delle piste evidenti sul fondale) risalgono al 2015. Da allora nessun avvistamento, né da parte dei subacquei, né dei pescatori. Secondo questo articolo di Nature i dugonghi di Okinawa si sono estinti, o hanno lasciato l’isola. La protesta è svuotata del suo animale simbolo. “Don’t kill the corals”, dicono ora i cartelli, la battaglia prosegue.

Una battaglia difficile. Un terzo dell’area preposta è stato già cementificato. Difficilmente gli americani, in un momento così critico, rinunceranno alla loro base tra la Cina e Taiwan, difficilmente troveranno un’isola altrettanto adatta.

Governo centrale giapponese e Stati Uniti sono pronti a ricoprire la popolazione locale di milioni di dollari come compensazione, sperando che la comunità con il reddito più basso del paese accetti, ma ormai Tokyo e Okinawa si parlano attraverso le sentenze delle Corti più alte. La rottura c’è già stata, nasce da anni d’insofferenza. Molti intravvedono una componente ideologica in questo inedito risveglio ambientalista in Giappone, ma il mare è il mare e non si cura di distinguere i pulpiti. Resta il rammarico che tutte queste energie, nuove e sane, vengano impiegate in una battaglia quasi sicuramente persa, quando avrebbero potuto avere più successo nel combattere altri abusi sull’isola, più facili da contrastare e che oggi avrebbero bilanciato la perdita di Henoko Bay. Voglio sbagliarmi.

Voglio sperare che vincano gli ‘indiani’ che con le canoe sfidano la fortezza. Voglio sperare che non ci sia più bisogno di luoghi dove immagazzinare armi atomiche. La storia presente ci dice che il pianeta non sta andando affatto in quella direzione.

 

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