Alghe, spugne e New Green Deal – due storie umane

Possono le attività ecosostenibili contribuire a mitigare povertà e disparità di genere? Pare di sì. È accaduto a Zanzibar e in Messico. Due iniziative descrivono perfettamente lo spirito del New Green Deal perché non ci parlano solo d’ambente ma anche di umanità e di riscatto sociale.

Coltivazioni di alghe | Tanzania | Foto di Aron Marinelli | Unsplash
Zanzibar

Erano gli anni Novanta e le vedevo avanzare nella luce abbagliante della laguna con la bassa marea, coperte da capo a piedi con quei drappi colorati e sottili delle donne africane. Andavano a raccogliere le alghe che crescevano su dei filari bassi. A Zanzibar si diceva che coltivassero le alghe per rifornire il mercato cinese. Gli uomini non volevano farlo, preferivano pescare con le reti e con le fiocine, ma le alghe no. Valevano poco e raccoglierle era considerato un mestiere da donne. Gli uomini, nei villaggi lontani dai resort, non si curavano di entrare in acqua anche nudi per sistemare le reti. Le donne, quando le vedevi in giro, erano sempre coperte. Non potevo immaginare che quel mestiere snobbato potesse contenere i semi di una rivoluzione sociale.

Cacciatori e raccoglitrici

La coltura delle alghe era stata introdotta nell’arcipelago di Zanzibar dalle Filippine nel 1985. Le vaste lagune dell’isola di Unguja si rivelarono presto un ambiente ottimale per questo tipo di coltivazione che richiede uno sforzo ed un investimento minimi. Basta conficcare dei bastoncini nella sabbia e unirli con delle sagole alle quali si legano dei ciuffi d’alga. In poco più di sei settimane il loro volume aumenta di dieci volte. Alcune qualità di alga finivano nei mercati alimentari asiatici, altre venivano destinate alla produzione dell’agar agar, un addensate ubiquitario col quale vengono prodotti gel per l’industria cosmetica, farmaceutica ed alimentare.

Troviamo l’agar nei gelati, nei dentifrici, nelle gelatine. Il suo aroma delicato, quasi neutrale e la sua bassa assimilabilità lo rendono preferibile alla colla di pesce. Presto si scopre che la qualità di alga coltivata a Zanzibar è tra le migliori del mondo. L’arcipelago diventa un competitor mondiale e le colture si moltiplicano. A volte, purtroppo, a discapito dei mangrovieti. Sono ancora le donne ad occuparsi della raccolta, spesso contro il parere dei mariti. Gli uomini considerano quell’attività un hobby poco redditizio e insistono a dedicarsi alla pesca o lavorare nel turismo, che è in pieno sviluppo.

Quello hobby, secondo loro, distoglie le donne dai compiti casalinghi e dai ‘doveri’ coniugali. Si sbagliano. Nel 2012 le esportazioni di alga rendono 8 milioni di dollari, una cifra notevole, se considerata nell’economia locale, tanto che il governo si offre di pianificarne lo sviluppo. Nel 2014, il calo. Il riscaldamento dei mari colpisce anche Zanzibar e la produzione è scesa del 47%. I biologi marini consigliano di coltivare alghe più resistenti e pregiate, alghe del genere Eucheuma, ricche di carragenina, un addensante il cui impiego va dalla produzione della birra a quella dei cosmetici e della carta. Gli esperti del governo suggeriscono di spostare le attività sull’isola di Pemba che a differenza di Unguja ha un profilo più roccioso e fondali più profondi, dove le acque sono meno suscettibili al riscaldamento. C’è un altro problema. Per raccogliere le alghe in profondità, bisogna saper nuotare e alle donne è precluso. “Se gli uomini possono nuotare vorrà dire che impareremo a farlo!”, dichiarano impavide le raccoglitrice di alghe alla BBC.

La rivoluzione

È il 2018 e la BBC torna a Zanzibar a trovare le coltivatrici di alghe. Tra loro Safia Mohamed è una delle donne di Unguja che hanno avuto più successo. È la leader delle raccoglitrici del villaggio di Paje, nel sudest dell’isola. Ha comprato una casa, una barca, uno scooter, ed ha aperto un negozio dove vende prodotti a base d’alga ai turisti. Anche Mwanaisha Makame ha acquistato una casa e ammette di averlo fatto perché sentiva il bisogno di un posto dove vivere in caso di divorzio. Una sorta di polizza assicurativa, dichiara lei. I tribunali islamici di Zanzibar accettano istanze di divorzio presentate sia dalle donne che dagli uomini ma difficilmente si preoccupano di assegnare gli alimenti. I motivi di divorzio possono essere difficili da comprendere, in occidente. Si può divorziare perché la prima moglie non accetta la convivenza con la seconda, oppure perché una donna è andata a votare contro il parere del marito. Le elezioni del 2015 diventano motivo di almeno 50 divorzi sull’isola. La coltivazione delle alghe infonde un grado di sicurezza e di indipendenza sociale che prima le donne non avevano.

Sargasso | Foto di Stefan Sebok | Unsplash
Come non arrendersi al cambiamento climatico

Molte donne, a Zanzibar, hanno imparato a nuotare, ad usare maschera e snorkel, ma il clima sembra non avere pietà per nessuno. I mari si stanno riscaldando più velocemente di quanto previsto dalle peggiori proiezioni dei climatologi.

A Paje le alghe hanno smesso di crescere per tre anni di seguito e la produzione s’è lentamente spostata sull’isola di Pemba. Ma la risposta al problema è già sull’isola di Unguja. Era stata introdotta già nel 2009 da Marine Cultures, organizzazione no-profit svizzera che aveva sostenuto la coltivazione delle spugne, organismi più resistenti delle alghe all’aumento delle temperature. Con dei benefici per l’ambiente marino. Come i molluschi bivalvi, sono dei filtratori eccezionali per gli inquinanti, ma hanno bisogno di più cura delle alghe. Le spugne vanno pulite dalla sabbia sottile e fangosa che si accumula nei pori. Gli allevamenti iniziano ad affiancare quelli delle alghe fin quasi a sostituirle. Tra Paje e Djambiani, sulla costa sudorientale di Unguja, si forma una specie di cooperativa della quale fanno parte 13 donne, tra divorziate e madri single. Percepiscono il 70% degli introiti ed il loro stipendio è quasi il doppio della media locale. Possono comprare le divise per i figli da mandare a scuola e garantirsi l’indipendenza. Hanno creduto in ciò che i maschi faticavano a comprendere: i benefici della green economy in un pianeta che cambia.

Milagro in Costa Maya

“Forse è il modo in cui la natura ci dice di proteggere i nostri mari. Dobbiamo essere consapevoli di ciò che accade sulle spiagge. Dopo il dissesto che abbiamo creato in tanti anni, la natura ci sta dicendo di prenderci cura di ciò che abbiamo.”

Omar de Jesús Vazquez Sánchez

È il 2015 e lungo la Costa Maya, in Mesico, le onde del Mar dei Caraibi riversano tonnellate di alghe sulle spiagge. Non sono un dono del mare, sono il sintomo della sua sofferenza. Le acque, a riva, prendono una inquietante colorazione rossastra e l’aria sa di uova marce.

Omar de Jesús Vazquez Sánchez è un semplice giardiniere che vuol dare una mano. Mette insieme un gruppo di persone per raccogliere il sargasso. Ripagherà la manodopera vendendolo come concime ai suoi clienti. È il suo piccolo contributo ad una comunità che si sostiene con il turismo. L’anno dopo il fenomeno si ripete. La sua iniziativa, la Blue-Green Nursery, arriva a coinvolgere ben 300 famiglie a stagione, ma quell’alga mefitica continua ad arrivare. Si deposita a tonnellate, un milione nel 2019. Omar de Jesús sa che pulire è costoso. Sa che per garantire il suo smaltimento bisogna farne qualcosa di utile, qualcosa che si possa vendere, e che giardinaggio e agricoltura non bastano.

Ha letto che in qualche parte del mondo hanno fatto dei mattoni con la cenere dei vulcani e che da qualche altra parte li fabbricano con la paglia. Allora Omar inizia ad essiccare l’alga per poi sminuzzarla facendola girare insieme a delle pietre in una betoniera rudimentale. Separa il triturato servendosi di un setaccio. Le parti più grandi andranno come concime o foraggio, quelle più sottili le mescola con acqua e diversi materiali, tra i quali i risulti delle demolizioni edilizie. Vuole fabbricare mattoni solidi, stabili nel tempo. Per riuscirci deve acquistare una pressa.

Nel 2021 dal suo modesto laboratorio all’aperto escono i primi mattoni isolanti, traspiranti, leggeri e duraturi con percentuali di sargasso che vanno dal 40% al 60%. Il dipartimento per l’ecologia e l’ambiente del Quintana Roo, il distretto amministrativo della Costa Maya, approva l’uso dei SargaBlocks, garantiti 120 anni. Un’eternità, per gli standard edilizi usa e getta del continente americano. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) seleziona il lavoro di Omar de Jesus come prova di ingegnosità. Il problema dei sargassi interessa ormai a tutta l’area dei Caraibi e l’UNDP diffonde la visione di Omar presentandola come modello di ispirazione nei paesi caraibici afflitti dal problema.

Omar de Jesús Vazquez Sánchez | © BlueGreen
Un successo ambientale e umano

In meno di due anni 6.000 tonnellate di alghe maleodoranti vengono riciclate solo in Messico e grazie alla promozione della UNDP Omar riceve richieste di consigli e di partnership dalla Florida, dalla Repubblica Dominicana, Giamaica, Barbados. Il successo ed i riconoscimenti investono SargaBlocks e Omar de Jesùs vuole condividerlo con chi ha meno. Battezza la prima casa di mattoni di sargasso col nome di sua madre, Angelita, che non ne aveva mai posseduta una e la dona ad una famiglia che ne aveva bisogno. Ne costruirà altre, di case Angelita, da donare a chi non si può permettere un tetto sulla testa. Ad oggi sono 14, le case Angelita.

“Sono emigrato negli Stati Uniti da piccolo, con la famiglia. Da adulto sono diventato dipendente dall’alcol e da altre sostanze. Il sogno americano mi aveva deluso e sono tornato in Messico. Mi sentivo una persona da buttare, come il sargasso. Allora ho cercato di renderlo utile.”

 

   Facebook  Twitter  YouTube Linkedin

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *