“Ciò che accade nelle acque internazionali non sarà più lontano dagli occhi, lontano cuore”
Jessica Battle, WWF
Le acque internazionali non saranno più il far west grazie all’accordo siglato alle Nazioni Unite. A New York, dopo due giorni di trattative estenuanti, di mediazioni condotte per trentasei ore senza sosta, dopo più di un decennio di speranze naufragate, i rappresentanti degli stati membri hanno messo la parola fine allo sfruttamento indiscriminato dei mari oltre le zone economiche esclusive. Ma c’è molto di più.

Un punto di svolta
“Tra duecento anni, se saremo in grado di far andare avanti questo pianeta senza distruggerlo, ricorderemo testi come questo e diremo che il punto di svolta è stato quando ci siamo uniti per imporre la protezione del patrimonio comune dell’umanità”
Jeremy Raguain, ambientalista e delegato delle Seychelles
Per comprenderne la portata storica bisogna fare alcuni passi indietro nel tempo, a quando un giurista maltese, Arvid Pardo, nel 1967 con un intervento alle Nazioni unite ribaltò definitivamente il concetto di Mare Liberum, l’idea settecentesca sulle acque extraterritoriali. Da quell’intervento le Nazioni Unite iniziarono a considerare gli oceani ed i loro fondali non più come terra di nessuno, ma come patrimonio comune. Gli effetti della pesca indiscriminata e le inquietanti incognite aperte dal deep-sea mining, lo sfruttamento minerario degli abissi, avrebbero dovuto accelerare il processo decisionale. Non andò così. La pressione delle lobby della pesca e delle industrie minerarie aveva agito da freno su un accordo che sembrava ineludibile.
Esattamente un anno fa l’ultimo naufragio, ne abbiamo scritto nell’articolo Gli oceani come il far west: ancora senza regole. Il 4 marzo del 2023 una esausta Rena Lee, presidente della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale, annuncia: “la nave è giunta in porto”, suscitando una standing ovation tra i delegati. Per arrivarci i negoziatori avevano dovuto risolvere quasi 300 punti che erano rimasti in sospeso. Oggi il trattato impegna tutti gli stati membri a proteggere il 50% della superficie del pianeta. A tanto corrispondono le aree marine interessate. Per attuarlo è stato creato un quadro capace di stabilire, e mantenere, una rete di aree marine protette in zone di mare dove nessuno avrebbe mai potuto farlo prima. Anche il criterio adottato per la loro realizzazione è una novità; non ci sarà più bisogno dell’unanimità per decidere, basterà la maggioranza.Verso l’obiettivo 30×30
Gli oceani producono la metà dell’ossigeno rilasciato nell’atmosfera e, assorbendo calore e CO₂ ammortizzano gli effetti del riscaldamento globale. I loro fondali accolgono il più grande deposito di carbonio del pianeta. Gli oceani, ospitando il 95% della biomassa, sono fonte di proteine per circa 3 miliardi di persone e del sostentamento economico di più di 600 milioni di persone, dai quali dipendono direttamente. Purtroppo la moderna tecnologia permette uno sfruttamento devastante delle risorse marine, che avviene soprattutto nelle aree remote, in acque al di fuori delle ZEE, le zone economiche esclusive. Una tecnologia che ha raggiunto su più fronti la capacità di arrecare danni irreversibili all’ambiente. Questo accade in un momento critico, in un momento in cui il cambiamento climatico e l’inquinamento stressano gli ecosistemi marini con una forza mai vista prima. Davanti a queste serie minacce nel dicembre 2022, durante la conferenza per la biodiversità tenutasi sempre alle Nazioni Unite, gli stati membri s‘erano accordati su un obiettivo: proteggere il 30% degli oceani entro il 2030. Mancava però un accordo che fornisse basi e strumenti giuridici per poter creare delle AMP in acque internazionali.
Quelle immense distese blu che erano di tutti (in quanto patrimonio comune) e di nessuno (in quanto a giurisdizione) grazie a questo trattato, sottoscritto da tutti i paesi membri, ora possono essere regolamentate. Occorrerà la ratifica di ogni singolo governo, e questo può richiedere mesi, se non anni, ma il dado è tratto. Basterà il sì di almeno 60 stati per renderlo effettivo. L’Unione Europea, con un gesto di buona volontà nei confronti dei paesi che hanno subito il declino delle risorse per il gap tecnologico, ha stanziato subito 40 milioni di Euro per l’attuazione dell’accordo da parte dei paesi in via di sviluppo e si è impegnata a stanziarne altri, ben 800, per l’implementazione del trattato. A livello negoziale, riportano i cronisti presenti, un attore chiave è stata la High Ambition Coalition, un’organizzazione nata alle Isole Marshall per contrastare il cambiamento climatico e che ha coinvolto UE, Stati Uniti, Cina e Regno Unito per giungere ad un accordo equo nei confronti del sud del mondo. Come per il riscaldamento globale i paesi in via di sviluppo stanno subendo i danni per le emissioni e lo sfruttamento eccessivo delle risorse causati da altri, e non hanno accesso ai dati scientifici raccolti essenzialmente dai paesi più avanzati. In questo scenario uno degli scogli più ostici è stato trovare un’intesa sullo sfruttamento delle MGR, o risorse genetiche marine. Fortunatamente il risultato dei negoziati è andato oltre le aspettative di molti paesi in via di sviluppo. I benefici derivanti da questa attività, monetari e non, verranno condivisi grazie a un fondo creato ad hoc.
Le famigerate MGR
I diritti sullo sfruttamento delle risorse genetiche marine sono stati un ostacolo continuo durante i tanti incontri precedenti. Non senza motivo. L’idea che si possa brevettare la sequenza genetica di un organismo marino o che possa venire sfruttata per scopi commerciali solo da chi ne possiede i diritti, si scontra con il concetto di Mare Liberum che nell’ottica più recente viene inteso come patrimonio dell’umanità. Le industrie cosmetiche e farmaceutiche hanno da tempo rivolto gli occhi al mare. Pesci, spugne, coralli, crostacei e batteri scoperti nel profondo degli oceani contengono nei loro codici genetici soluzioni dal grande ritorno economico per le industrie cosmetiche, alimentari e farmaceutiche. Se un tempo procedevamo all’estrazione di olio di fegato di merluzzo, oggi ci occupiamo dei geni che permettono la sintesi degli Omega3 innestandoli su altri organismi.
Non c’è una nazione che non vorrebbe accedere a queste risorse, ma molte non possono permettersi la tecnologia necessaria per studiare, estrarre e brevettare tali sequenze genetiche. Per gestire il divario è stato creato un Comitato per l’accesso e la condivisione dei benefici. Il suo compito sarà quello di esaminare gli MGR scoperti sia prima che dopo l’entrata in vigore dell’accordo, si occuperà della gestione del fondo e della ridistribuzione del denaro. Escluse dal trattato sono le sequenze genetiche ottenute dalle attività di pesca e delle navi militari.

Il futuro degli oceani e non solo
Il trattato è un passo storico, è vero. Un passo, tra l’altro, inaspettato vista l’attuale situazione geopolitica. La speranza dei movimenti ambientalisti è che alle promesse seguano i fatti e che ogni stato membro faccia la sua parte, che la ratifica avvenga nel più breve tempo possibile anche grazie ai fondi stanziati dall’UE, e che quindi ci si occupi al più presto del deep-sea mining e della creazione e protezione di vastissime aree marine protette. Un punto di svolta c’è stato, su più livelli. Oggi il diritto di beneficiare su un piano di parità delle risorse oceaniche è sancito dall’articolo 5 del trattato, che prevede anche; il principio di chi inquina paga, l’uso delle conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene e delle comunità locali, il rispetto dei diritti delle popolazioni indigene sui temi di conservazione. In questo quadro l’adozione del patrimonio comune dell’umanità come principio fondamentale per le acque extraterritoriali ammortizza il divario tecnologico ed economico. E si crea un precedente giuridico che apre alla regolamentazione di altri territori, come per esempio l’Antartide e lo spazio.